Che origine ha la tua formazione nel mondo dell’arte?
Essendo della West Coast non ho vissuto a New York da ragazzo. Andai in Italia all’inizio degli anni Settanta, con una lettera di presentazione per conoscere Ezra Pound, ecco perché conosco l’italiano. Le mie prime vere esperienze con le gallerie d’arte hanno avuto luogo a Milano: Galleria Marconi, Galleria Blu, Galleria Il Milione. Qui c’è stato il mio apprendistato. Solo dopo l’Italia arrivo a New York. New York era il compromesso tra l’Italia e l’America profonda. Era arrivata l’epoca dell’arte concettuale e mi resi conto che dovevo andare a New York.
Com’era la situazione in città?
Arrivo a New York nell’autunno del Settantasei. Un momento molto curioso. La città era sull’orlo della bancarotta. Tutta Broadway dalla Quattordicesima giù fino a Canal street era completamente abbandonata. Saracinesche serrate. Negozi chiusi. Una città più pericolosa di qualsiasi altra città: favolosa!
E SoHo, com’era La Mecca dell’arte contemporanea?
SoHo era un quartiere molto duro, niente affatto chic. Era stata “fondata” da soli cinque anni, era ancora una zona borderline. Era un periodo in cui il prestigio della produzione artistica era al suo punto più basso: tutta la creatività andava nel rock’n’roll, nel cinema, nella moda. L’arte contemporanea era un settore
Insomma totale crisi per l’arte contemporanea?
Una settimana dopo il mio arrivo a New York ero ad un party nel retrobottega dello studio di David Byrne e ho cominciato a parlare con un tizio che era appena arrivato da Chicago, era curioso, aggressivo, si chiamava Jeff Koons. Siamo immediatamente diventati grandi amici. Solo in seguito ho intravisto l’esistenza in città di artisti misconosciuti: Cindy Sherman, David Salle, Julian Schnabel.
Un’atmosfera particolare…
Esatto: i Talking Heads non avevano ancora stampato un disco, Annina Nosei e Mary Boone non avevano ancora aperto una galleria, tutto doveva partire e tutto stava per partire: gli anni Ottanta sono iniziati nel Settantasei. Dopo un tentativo picaresco di aprire una mia galleria me ne tornai in Oregon, da questo fallimento nacque (con Laura De Coppet) il libro The Art Dealers (1985), sulla grande prima generazione dei galleristi americani. Siamo dunque nei pieni anni Ottanta e il ritorno della pittura rende di nuovo potente il mondo dell’arte. Quelli che fino al giorno prima si vantavano dicendo “sono un critico di cinema underground”, dopo il successo della prima personale di Schnabel da Mary Boone affermavano con decisione “ma naturalmente sono sempre stato un critico d’arte”…
E Leo Castelli, come si inscrive in tutto ciò?
Nell’occhio di questo ciclone c’era sempre Leo Castelli, con la sua elegante serenità che aveva attraversato il grande deserto degli anni Settanta. Era lui ad ispirare tutte queste nuove galleriste come Janelle Reiring e molte altre. Ma lo studio della storia cambia la storia, ed erano in molti già allora a studiare Leo Castelli come modello. In quegli anni bastava dire solamente “420” e tutti capivano. 420 West Broadway era l’indirizzo della galleria di Leo Castelli dal 1962. La persona che volevo conoscere, una volta arrivato a New York, era Leo Castelli. La prima domanda che mi fece fu: How do you live? Gli risposi: faccio del mio meglio.
Come è nata l’idea di questo libro?
Leggendo Ezra Pound si incontra subito la questione di dove nasce l’innovazione. Il meccanismo di rinnovare la cultura. Pound, in riferimento al periodo rinascimentale, glorificava la figura di Sigismondo Malatesta in contrasto allo strapotere dei Medici. Castelli era molto malatestiano: faceva grandi cose con le briciole. Proprio come il grande mercante parigino Ambroise Vollard è transitato –in dieci anni- da Paul Cezanne a Pablo Picasso. Così Leo Castelli è andato da De Kooning a Andy Warhol. Ritratti inclusi. Molti hanno cercato di copiarlo, molti sono stati più ricchi di lui, ma nessuno più grande. E dunque a suo modo lui era un uomo rinascimentale.
Che struttura ha il volume?
Ho voluto scrivere un libro sull’epoca di Leo Castelli che non ci ha lasciato un’autobiografia. Il genere della biografia che propongo è molto anglosassone (fatta esclusione per Vasari o per l’antichità romana), non è un genere che va di moda nella cultura italiana al contrario che in America e in Gran Bretagna. La maggior parte del libro è fatta di testimonianze personale, di interviste, di incontri con questo grande gallerista. È stato, per citare Ungaretti, come catturare la vita di un uomo.
Che uomo era, Castelli, in galleria?
Oggi basta aprire un buco di galleria a Chelsea per trasformarsi in una Regina del Belgio. Al contrario Leo, nella sua galleria, era disponibile con tutti. Magari stava aspettando una vendita a Tokio, un’asta a Londra, la chiamata da parte di una vedova di un Senatore, organizzando una mostra a Los Angeles però era l’uomo più disponibile al mondo. Era il Papa del pop. Adesso se chiami il più mediocre gallerista e gli dici che gli vuoi consegnare un Nobel, ti risponde che non ha tempo…
Questo gallerista cambiò proprio il modo di concepire la galleria…
Prima di Leo Castelli la galleria era come una gioielleria. Un posto esclusivo. Una fortezza. Leo “per necessità” (come diceva lui) si sentiva costretto di creare un grande franchising internazionale che voleva corrispondere a ciò che stava succedendo all’epoca -primi anni Sessanta- nella società: la comunicazione, la pubblicità, il viaggio. La galleria deve cambiare con la società. E Castelli ha fatto così negli anni Sessanta, e poi Settanta e così via. Prima di allora la mentalità era: se io tratto in esclusiva Mondrian, Mondrian non deve essere esposto se non nella mia galleria. Se un collezionista lo vuole viene ad acquistarlo da me. Sidney Janis, l’unico concorrente all’epoca di Leo Castelli, ragionava in questo modo. Prima di Leo Castelli la galleria era un luogo losco, come un vecchio libraio a lutto in un film degli anni Trenta. Per entrare bisognava suonare.
Quali sono state le persone importanti nella vita di Castelli?
Bisognerà erigere un monumento ad Ernesto Kraus, padre di Leo Castelli. Che invece di sgridare suo figlio, non felice di lavorare alle assicurazioni a Trieste e voglioso di studiare letteratura, gli fa una controproposta: resisti ancora un anno nel mondo degli affari, a Bucarest, e poi decidi cosa fare in piena libertà. Quella decisione cambiò il destino dell’arte americana: a Bucarest Leo Castelli conobbe Ileana Sonnabend.
Che personaggio è Ileana Sonnabend?
Quando usciva dal 420 di West Broadway per dirigersi verso nord con il suo piccolo entourage era come vedere un’imperatrice.
Che ruolo ha avuto nella vita di Leo?
È stata Ileana che ha aperto a Leo gli occhi. L’interesse principale di Leo era in realtà per la letteratura. E non fu un caso se questa giovane sposa di diciotto anni chiese come regalo di nozze un acquerello di Henri Matisse…
Cosa successe di lì a breve?
Nel ’39 aprì la più galleria più chic di Parigi. Trattava surrealismo. Se non fosse arrivato Adolf Hitler avrebbe avuto la più grande galleria d’Europa. Non avrebbe mai conosciuto Jasper Jones o Bob Rauschenberg, ma avrebbe avuto la più importante galleria di Parigi.
Quali sono i galleristi –a New York o altrove- che hanno preso il testimone di Leo Castelli?
L’unico che ha tenuto alta la bandiera e che ha veramente studiato Leo è Jeffrey Deitch. In termini di impegno e volontà. Ma ancor prima di Jeffrey Deitch, Tony Shafrazi si avvicinava a Leo a livello di circostanze. Deitch come sentimento, Shafrazi come elasticità e capacità di gettare via i pregiudizi.
Cosa occorre per capire questo uomo. Oltre a leggere il tuo libro?
Per capirlo bisogna rileggere Italo Svevo. Tante donne, durante i mille party, sono cadute davanti al suo fascino definendolo “italiano”. E non capendo quanto il suo modo di fare era profondamente “triestino”, anzi “austro-ungarico”.
m. t.
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