Che rapporto hai con il tuo Paese?
Ci vado spesso, sono affezionato, ma ha fatto un’inversione di 180 gradi e la rivoluzione oggi è il capitalismo selvaggio, dove paghi tutto, dalla scuola all’ospedale. È come vivere nell’Europa dell’Ottocento narrata da Victor Hugo, prima delle conquiste sociali.
La Francia è la tua patria d’adozione. Che rapporto hai con lei?
Quando arrivai in Francia mi aspettavo che la gente vivesse come nei libri di Stendhal e di Hugo, che leggevo in Cina perché erano permessi. Invece era tutto moderno. La prima volta che vidi il Centre Pompidou lo scambiai per una fabbrica di petrolio, poi vi entrai e vidi una mostra di Picasso che mi riempì di meraviglia. Dopo poco mi trasferii a Digione per studiare arte, perché non mi avevano accettato all’École des Beaux-Arts di Parigi.
La morte ha un merito, ti ha reso un artista fuori dagli schemi geografici…
È un tema universale, che riguarda ciascuno di noi. Scelgo di rappresentare la morte perché ne ho paura e perché è un cammino che ci accomuna. L’ho scoperta quando è morto mio padre. Prima pensavo di avere tempo, ma al suo funerale mi son detto: il prossimo sarò io. Sono diventato responsabile in quel momento, prima ero ancora un ragazzo. Immagino spesso il giorno in cui sparirò. È un dramma furioso che mi rattrista, perché la vita è talmente bella.
Per questo ritrai le icone di diverse religioni?
Quando pensi alla morte diventi responsabile, cominci a pregare, perché è un modo per prepararti. Dipingere è il mio modo.
Ma loro in quanto tali cosa rappresentano per te?
Per me Mao è una figura familiare, quasi parentale, come la Madonna, Gesù, l’imperatore o Buddha.
In mostra lo metti vicino all’imperatore Pu Yi…
Mi interessano entrambi, perché Pu Yi è nato imperatore ed è finito uomo ordinario, Mao è nato uomo ordinario ed è divenuto imperatore della Cina. M’interessa il destino.
Eppure è un luogo comune, per i giovani artisti cinesi, dipingere Mao…
Mao è passato, come gli imperatori, ormai è un souvenir, un’epoca scomparsa, una nostalgia.
Ho iniziato a Pechino come pittore di propaganda. Allora usavo fare una pittura di grandi dimensioni, più grandi di quelle già considerevoli che uso adesso. Erano pannelli destinati ai luoghi pubblici. Non avevo ancora vent’anni. Un’esperienza che mi ha insegnato come utilizzare la pittura.
Ma era una pittura senz’arte…
Non devi esprimere la tua libertà in una pittura del genere. Mi davano l’immagine da riprodurre e basta. Spesso erano ritratti di operai, soldati, contadini. Era una pittura realista, piatta, senza contrasti. Il contrario di quello che faccio adesso.
Perché, cosa fai adesso?
Lavoro veloce, nell’immediatezza, perché l’opera sia sempre fresca. Dipingo con l’impazienza di vedere il risultato di quello che faccio. Sono affamato di risultati finali.
Sei come un calligrafo orientale o un artista marziale…
Sono come un calciatore che si trova davanti alla porta. Se perde un secondo per riflettere fallisce il gol. In quel momento il suo corpo è più veloce della mente, è un gesto automatico ma pieno di senso.
Perché usi solo il bianco, il nero e il rosso?
Per evitare lo scontro con i grandi pittori. Con i grandi ci si batte oppure è bene trovare una propria strada, una strategia che permetta di fare un cammino personale, che per me significa vivere nel mio universo tragico, ombroso. È più saggio che cercare di misurarsi con gli antichi.
A chi ti riferisci? Chi sono i tuoi modelli?
Caravaggio, Tiziano, Goya, Van Gogh. La morte è un soggetto molto sentito dagli artisti.
Tutti artisti occidentali…
Arrivato in Francia, ho capito che l’arte del XX secolo era dominata da artisti occidentali. Ma dal 1989 non è più così grazie a una mostra, Les magiciens de la terre, curata da Jean-Hubert Martin, che ha messo in questione i tabù degli scambi mondiali, mettendo a confronto grandi nomi dell’arte occidentale con artisti africani, cinesi e arabi. È stato un precursore, prima della globalizzazione.
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