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Intervista a Mimmo Jodice: fotografia e pensiero di frattura
Personaggi
di Silvia Conta
Non passa opening, da Vistamarestudio a Milano, che non vi sia gran folla dall’ora di apertura alla chiusura della porta della galleria. Non ha fatto eccezione, anzi, l’opening di Mimmo Jodice e della mostra “Città Aperta/ Open City”; una selezione di fotografie degli anni ’60 e ’70 dalle tematiche sociali, urbane, dove la faccia delle tradizioni del sud prese da angolature “diverse” si mischiano con le storie dei trasferimenti di massa verso il nord, a Milano, a Torino. Ma anche una serie di immagini sperimentali, dove Jodice interveniva per “verificare” la possibile trasformazione del medium verso un’altra dimensione che aveva a che fare con la militanza…
Partiamo così, con questa esclusiva intervista al grande fotografo italiano.
Che legame emerge, in mostra, tra la sua ricerca fotografica degli anni Sessanta e la Napoli di allora? Perchè, assieme al curatore, avete scelto di dedicare una mostra a questa fare del Suo lavoro?
«Ho parlato a lungo con Douglas Fogle, curatore della mia mostra a Vistamarestudio, degli inizi del lavoro che ho fatto negli anni ’60 e ’70. In quegli anni mi dedicavo alla pittura e facevo scultura da autodidatta, ma la scoperta della fotografia mi aprì un mondo straordinario. Fu un inizio appassionato e intenso: iniziai con un lavoro di sperimentazioni in camera oscura. Non mi interessava la fotografia tout-court ma quanto questa poteva darmi e quanto fosse flessibile nel realizzare il pensiero creativo. Ancora prima di fotografare ho sperimentato in camera oscura strappi, collages, rotazioni, vibrazioni….Ma erano anche gli anni di grandi lotte sociali e di impegno politico: Napoli era una città molto povera e con grandi problemi. Mi sentivo moralmente impegnato a partecipare e non volevo e non potevo rimanere chiuso in camera oscura».
Quali aspetti di Napoli, in particolare, ha voluto indagare attraverso gli scatti in mostra? La fotografia ha cambiato il suo rapporto con la città?
«Sa, la mia città viveva un periodo di grande abbandono e grandi conflitti ed io sentivo il bisogno di denunciare e far conoscere la disperazione della mia gente. E così mi sono dedicato alle inchieste sul lavoro minorile, le condizioni e l’abbandono degli ospedali psichiatrici, la povertà profonda delle periferie, il lavoro degli operai, la speculazione edilizia. Ho avuto ed ho ancora un rapporto di amore e di accettazione per Napoli. Ho avuto mille occasioni per andare via ma questa è la mia città bellissima e sempre sofferente».
Le immagini in mostra appartengono a un’epoca in cui la strumentazione fotografica era profondamente diversa da quella di oggi. Come il processo che si svolgeva nella camera oscura ha influenzato il suo lavoro? Era diverso essere un fotografo allora rispetto ad oggi?
«Ho iniziato con la fotografia analogica che continuo ad usare ancora oggi. Sono un fotografo lento: comincio con lo scegliere una diversa sensibilità del rullino, per poi inserirlo nella macchina fotografica, aspettare la luce giusta, e scattare. Tutto questo fa parte del progetto. A cui segue chiudersi in camera oscura, sviluppare, fare i provini, selezionare l’immagine giusta da stampare. È in camera oscura che si completa e si realizza il progetto. Anche la scelta della gradazione della carta è importante e infine le tante prove di stampa fino a raggiungere il risultato giusto per il mio pensiero».
In mostra ci sono anche alcuni degli esperimenti con i paesaggi architettonici strappati e ricomposti. Da dove è nata l’esigenza di lavorare sulla fotografia una volta sviluppata, anziché sullo scatto?
«L’impegno sociale era necessario e dominante per me, ma era anche contemporaneo alla mia curiosità di capire quanto questo mezzo, la fotografia analogica, potesse darmi. I giorni e le notti trascorsi in camera oscura erano magiche e piene di sorprese: il foglio di carta fotografica assumeva una vita propria, le figure e le architetture si muovevano, si allungavano, ruotavano. Una magia. E poi dopo la stampa intervenire con gli strappi, i collages, le sovrapposizioni. Inseguendo sempre il pensiero di frattura, di scollamento e il mio disagio verso una società sofferente che capivo e per la quale volevo combattere».
Che cosa significa, secondo Lei, sperimentare in ambito fotografico?
«Oggi con il digitale è tutto possibile. A Napoli, agli inizi degli anni ’60 si conosceva solo la fotografia amatoriale. Tutto ciò non mi interessava e la prima cosa che mi sono chiesto allora è stato che cosa volessi da una macchina fotografica e dal lavoro di camera oscura. Capire che cosa volevo e potevo ottenere. Sperimentare è ancora importante per me oggi: il colore – il bianco/nero per me è sempre stata una vasta gamma di colori – , il movimento dell’immagine, il taglio, la luminosità sono momenti di grande creatività ed enorme possibilità per raggiungere e concretizzare il proprio pensiero».