“Perché le frontiere cambiano” non porta un punto di domanda. È semplicemente un dato di fatto ineluttabile, lo è sempre stato. Nonostante gridi di secessione, volontà di “integrazioni” anziché di promozione di vero multiculturalismo, e nonostante le tragedie che abbiamo visto consumate in questi anni – dai Balcani al Mediterraneo – è decisamente comico pensare che le frontiere restino immobili.
Eppure, nella geografia come nell’arte, questa – ancora – sembra essere la percezione comune. Anzi, non solo comune, ma “giusta”.
I Masbedo (Nicolò Massazza e Iacopo Bedogni) sono gli autori di “Perché le frontiere cambiano”, in scena fino al 10 novembre all’ICA di Milano, a cura di Alberto Salvadori. Una mostra della durata di un lampo, che sancisce però un momento importante nella carriera del duo.
Ne abbiamo parlato insieme, e ne è venuta fuori questa lunga intervista che lancia diversi sassi nello stagno del mondo dell’arte.
Manifesta 12 per voi è stato uno spartiacque; siete gli artisti che hanno avuto più fortuna da Palermo. Come state vivendo questo periodo così intenso?
«Stiamo aspettando l’invito per Manifesta 13», mi dicono ridendo Jacopo e Nicolò, «Ma saremo dei pazzi ad accettare se arrivasse davvero. La sorte non si replica».
Come è cambiato il vostro modo di lavorare?
«Non abbiamo cambiato modo di lavorare, siamo forse solo più concentrati verso la direzione da dare alle nostre scelte, alle opportunità».
Il fascino polveroso dell’Archivio di stato, il video realizzato con Mimmo Cuticchio, le lunghe attese e l’apertura straordinaria dello spazio ha contribuito a far sì che i Masbedo diventassero “il caso” a Manifesta, tanto che sul Guardian siete finiti raccontati da Adrian Searle come autori di un’installazione in grado di colpire in un modo tale che ben poche opere…
«Abbiamo messo insieme una miscela giusta, diventata esplosiva. Abbiamo vissuto a Palermo per un anno, abbiamo cercato di sentire la pancia del territorio. Oltre a Palazzo Costantino, sede di Videomobile, cercavamo uno spazio per realizzare delle performance. Un giorno una nostra assistente palermitana ci ha proposto di vedere uno spazio: era l’Archivio di stato».
Quindi da lì siete partiti, però con un altro progetto, un altro video…
«Il nostro Archivio di Stato [in corte dei Gangi, nel centro storico n.d.r.] è un po’ come un cimitero, un sepolcro: i tomi sono troppo vecchi per essere spostati, il processo di digitalizzazione è troppo costoso, e allo stesso tempo non si possono di certo buttare…è la memoria della città».
E così avete proposto agli organizzatori di poter entrare lì
«Sì. Ci hanno dato il benestare e ci siamo mossi in maniera molto autonoma, come tutt’ora facciamo e come abbiamo sempre fatto. Sai, noi non abbiamo una galleria di riferimento, facciamo un po’ paura al “sistema”. Abbiamo chiesto al funzionario di stato dell’Archivio di cercarci delle storie e lui ci ha trovato una denuncia verso Vittorio De Seta. E lì è nata l’idea di fare il video con Mimmo Cuticchio, quasi in maniera sacrale nei confronti dello spazio».
Non avete una galleria, ma in questi anni siete riusciti ad avere ottimi interlocutori e produttori, uno su tutti In Between Art Film
«Un progetto non è solo intuizione e comunicazione; è un processo molto più complesso. Dal 2008 abbiamo iniziato una “linea di produzione” in cui ci siamo messi in prima persona, cercando sostegni esterni, in maniera quasi anarchica. La partecipazione a Manifesta ce la siamo coperta grazie a chi ha creduto nel nostro lavoro. Per noi non si tratta più di fare semplicemente mostre».
Capisco che intendete, conosco il concetto del “black block” dell’arte che terrorizza il piccolo sistema perché riesce a farne a meno e che trova collezionisti in modo uguale se non più incisivo…
«In una società dove la comunicazione va fortissimo è un po’ come se la situazione nel mondo dell’arte fosse cristallizzato. Gli artisti dovrebbero essere stimolati a guardare oltre le zone di confort. Spesso non si fa gioco di squadra, ma se non si impongono le regole del gioco non cambia il sistema. In questo momento storico le gallerie hanno un ritardo e cercano continuamente artisti che si possano controllare con una serie di benefits minimi: la fiera, la collettiva, partecipazioni a grande manifestazioni che però restano confinate. E che cosa può uscire da una politica simile? Nel momento in cui ci sono a disposizione solo dispositivi “piccoli”, il nostro modo di lavorare per il sistema diventa un grande difetto di cui noi facciamo virtù.
Quali sono queste virtù?
«Un reale meccanismo produttivo che puoi gestire dal primo all’ultimo step. Con questo sistema si hanno vantaggi ma per i galleristi è difficile capirlo. Forse non si potranno vendere muri di video, ma per esempio ci possono essere ricavi da altre attività, come la collaborazione con altre istituzioni magari non afferenti al ristretto mondo dell’arte visiva. I galleristi però molto spesso non hanno voglia di stare ad ascoltarti, col tuo lavoro le tue dinamiche. E quando a un gallerista passa la voglia di ascoltare un artista il sistema passa da mercato a mercatino».
Serve coraggio anche solo per pensarle queste parole…
«Il coraggio, diciamo sempre, è un muscolo che va allenato. Per allenarlo, per costruire progetto, non si può perdere tempo su queste dinamiche. Non basta fare la Biennale di Venezia per poter lavorare. E poi, a Venezia, bisogna arrivarci ben armati».
Torno alle vostre dinamiche di lavoro che spesso non sono piaciute proprio agli addetti ai lavori. Alla parola Masbedo infatti molti, negli anni, hanno storto il naso. È cambiato qualcosa ora?
«Come spettatori semplici anche noi buttiamo dalla rupe o esaltiamo autori perché abbiamo visto tre lavori, ma se questa arroganza arriva anche dagli addetti al settore allora è un problema. Dopo Manifesta, però, tutti ad amare il lavoro dei Masbedo».
Avrei dovuto cominciare da questa domanda, e invece la faccio ora: parliamo di questa mostra all’ICA
«É una mostra impegnativa. É una mostra giocata sul lungo periodo. Non è una mostra-evento, è una mostra piena di storia, è un romanzo di immagini e in ogni immagine c’è una storia. Devi avere tempo per capire quello che si dice, e capire perché le storie si intrecciano. È una mostra narrativa, di vasi comunicanti che uniscono – attraverso il dispositivo dell’archivio – una memoria della comunità. A noi piacciono le memorie del “sottoproletariato del cinema”, come direbbe Pasolini, che ri-raccontate diventano a loro volta nuovo cinema. È una mostra dove ancora De Seta, la Panaria Film [con l’intervista di Vittoria Alliata, per esempio, n.d.r.], o l’azienda della Ferrania, così come la comunità Tamil portata a Palazzo Gangi [quello del Gattopardo, n.d.r], che rappresenta bene la stratificazione di Palermo, grazie a noi hanno ricevuto una nuova luce. Fare un progetto è cucinare una storia».
Dulcis in fundo: avete una serie di performance alle OGR, la proiezione del docu-film Welcome Palermo a “Lo schermo dell’Arte”, una mostra al Museu Nacional de Catalunya a Barcellona, un altro grande progetto, sempre alle Officine Grandi Riparazioni prevista per l’autunno 2020, e una collaborazione con il Puškin di Mosca…
«Il nuovo tema su cui stiamo è quello dell’aggressività, in senso sia etico che estetico. Oggi l’artista non si può concedere il lusso di non guardare la propria opera senza un risvolto etico. C’è la richiesta – sarà una moda o no? – agli artisti di avere una spina dorsale dritta su certe questioni.
E poi abbiamo deciso di applicare il “modello Palermo” a tutti i nuovi progetti, ovvero di avere un periodo di tempo abbastanza lungo per creare, studiare, immaginare, pensare e innescare collaborazioni sui temi che vogliamo mettere in scena. Dopo le OGR e Mosca vorremmo trovare una terza sede per la mostra in Danimarca, anche per la questione legata proprio alla violenza.
Welcome Palermo, è invece un ultimo anno di 70 minuti su questa esperienza, e vorremmo farci anche un libro».
Come sta andando l’iter per la donazione di Protocollo 90/6 all’Archivio di Stato di Palermo?
«Deve essere approvata dal Ministero, perché l’Archivio è ufficialmente chiuso al pubblico e per poter restare lì l’installazione deve essere cambiata la destinazione d’uso degli spazi. Donare quest’opera a Palermo, al suo Archivio di Stato storico, non è solo un atto d’amore ma anche un atto politico. Se l’operazione andrà in porto siamo sicuri se ne parlerà molto e Protocollo 90/6 diventerà l’icona della produzione dei Masbedo e ci accompagnerà per il resto della nostra vita».
“È un rischio che bisognerà correre”, aggiungo io. E ci ridiamo sopra.
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