Non si può prescindere dal nome di Gian Paolo Barbieri, quando ci si appresta a parlare di fotografia di moda italiana. Infatti, dagli anni sessanta ad oggi, Gian Paolo ha dimostrato una instancabile voglia di scattare e di rimettersi in gioco sempre e ad ogni costo.
Instancabile, ha “rivaleggiato” con i pilastri della fotografia di moda mondiale come Irving Penn e Richard Avedon, ma a differenza loro, Barbieri ha scelto di rimanere in Italia, a Milano, dove da sempre vive e lavora. Una scelta per niente scontata e molto coraggiosa insieme ad altri eroici compagni. I loro nomi sono Giorgio Armani, Gianfranco Ferrè e poi Krizia e Gianni Versace, che tutti insieme hanno contribuito alla creazione e alla nascita di un pret a porter tutto “Made in Italy”.
Ogni scatto è una storia pazzesca, una avventura. Le sue donne, l’etnico, i fiori, le foto di ricerca. Quest’anno la Lucie Foundation, gli ha assegnato il suo prestigioso premio, dopo Peter Lindbergh e Sarah Moon.
Sono andata nel suo studio, oggi sede della fondazione che porta il suo nome; ho incontrato Gian Paolo, che ora posso dire essere diventato un “amico”. E mi sono fatta raccontare epoche di cui ho molta nostalgia, per quanto non le abbia mai vissute davvero.
Dove è cominciato tutto?
«La mia vita da fotografo è cominciata in un piccolo studio, un abbaino a dir la verità, in viale Luigi Majno 5, a Milano. Era al sesto piano senza ascensore. Una fatica! Ma che soddisfazione; l’avevo messo a posto tutto io da zero. Mi ricordo che avevo addirittura fatto le tinture per i tendoni».
I tendoni, le quinte, le scene…Il tuo rapporto con il teatro e con il cinema è evidente. Tu teatralizzi la bellezza.
«Il mio rapporto con il cinema e con il teatro è consolidato da sempre. È cominciato quando ero piccolo e mia madre mi portava in campagna dove guardavamo film all’aperto. Li trovai da sempre estremamente affascinanti. Poi con mio fratello in un’altra occasione vidi Uragano, un film degli anni 30 diretto da John Ford rigorosamente in bianco e nero. Mi innamorai. Passarono un po’ di anni e da adolescente insieme a dei miei amici ci incontravamo per fare il verso e per ripetere le piéce teatrali e cinematografiche più famose: da “Viali al tramonto” a “La vita di Toulouse Lautrec”. Per raccontare la depressione americana con i miei amici, con cui nel frattempo avevamo istituito “il trio”, inscenammo “La via del Tabacco” e noi sedicenni con una valigetta straripante di vestiti prendevamo il tram 2 e andavamo in periferia alla montagnetta. Lì c’era una casupola dove vendevano delle bibite. Per noi divenne, nella finzione, la casa del protagonista. Anni dopo, durante una comparsa alla piéce “Gli ammutinati del Kein” successe un fatto singolare. Nello stesso momento stavano cercando gli armigeri per fare la Medea. Per quanto fossi più basso delle aspettative mi presero. Mi fecero un vestito che, a detta di tutti, era il più bello del mondo. Capii solo dopo che uno dei motivi era che il costumista si era follemente innamorato di me. Così feci una comparsa come figlio del Re. Si concatenò un’altra strana coincidenza perché nello stesso momento, mentre provavamo la Medea, altri stavano mettendo in scena la locandiera di Goldoni con Paolo Stoppa e Marcello Mastroianni. Sfortunatamente l’attore giovane si ammalò e a causa di una brutta peritonite e Visconti fu costretto ad organizzare delle audizioni all’ultimo minuto. Così, convinto dal capo comparsa, mio amico, mi presentai. Andai. C’era il teatro tutto nero, e ad un certo punto sentii la voce di Visconti, che chiese: “Come ti chiami?” Sono Gian Paolo Barbieri, dissi imbarazzatissimo. “Che pezzo ci presenti?” Non sono un attore, risposi subito. Non ho nessun pezzo pronto. “Allora mi reciti qualcosa che ha voglia di raccontarmi”. Gli recitai una poesia che ho molto amato. La Nave di Gabriele D’Annunzio. Poi passarono 24 ore che sembrarono una eternità. Visconti mi aveva preso. E io feci il cameriere di Mastroianni. Così girai i teatri italiani: l’Oltremare di Napoli, la Fenice di Venezia, il Nazionale di Roma. Tutto crebbe man a mano fino a che arrivai a Cinecittà dove cominciai a fotografare quelli che sarebbero diventate le star. Lì Gustav Zumsteg mi spronò a “fare la moda” grazie alla mia sensibilità, a sua detta, straordinaria».
E poi?
«E poi da cosa nasce cosa. Feci l’assistente a Tom Kublin. Furono i giorni più difficili della mia vita. Ma imparai tantissimo. E da li tutto fu un crescendo. In questi 50 anni di carriera ho scattato campagne e servizi memorabili. Da Ferrè, Armani a Vivienne Westwood, ho realizzato fotografie di modelle stupende che oltre ad essere bellissime avevano una personalità che oggi molte si sognano. Erano vere determinate, delle gran signore. Parlo di Isa Stoppi, Alberta Tiburzi, Benedetta Barzini, Ivana Bastianello, Audrey Hepburn, Monica Bellucci, Simonetta Gianfelici, solo per citarne alcune».
Cosa significa aver ricevuto il Lucie Awards?
«Sono contento certo. È sempre un piacere che il proprio lavoro venga apprezzato. Devo dire però che nella mia vita non ho mai pensato oltre la fotografia. Io sono sempre stato felice di scattare foto che riconosco come mie e che considero belle. Anche in passato sviluppavo le fotografie e tra tutte ne vedevo una o forse due e pensavo “eccole”. Il resto è sempre stato un di più. Bisogna fare quello che si ama, nonostante tutto, nonostante tutti. Io non mi sono mai dato per vinto anche quando l’Italia e il sistema della moda ha escluso i fotografi italiani. E quando a Parigi ad un evento serale la mia agente mi disse Gian Paolo, il signor Richard Avedon vorrebbe salutarti, e vedendomi mi disse che era “un estimatore delle mie fotografie” capii che la cosa veramente importante è non smettere mai di fare quello che ci fa sentire vivi. Sono Gian Paolo Barbieri, ho 80 anni ed ogni giorno in cui non scatto, è un giorno perso».
Maria Vittoria Baravelli
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