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Intervista a Paolo Cirio
Arte contemporanea
Parla l’hacker artist che ha sfidato Google, Facebook e Amazon. Ora in mostra a Torino alla Fondazione Sandretto e da Giorgio PersanoPaolo Cirio, classe 1979, è un hacker artist torinese, residente a New York da circa dieci anni. La sua pratica artistica indaga le strutture di potere che caratterizzano la nostra epoca ed il modo in cui il controllo e la distribuzione dell’informazione influenzano, tramite le nuove tecnologie, politica ed economia così come le vite degli individui.
Il campo di ricerca di Cirio sono i media, la rete, i social network, in cui opera attraverso l’hackeraggio dei dati e la manipolazione informativa (arrivando a bersagli come Facebook, Google e Amazon), per poi restituire in forma estetizzata i risultati delle sue azioni con l’obiettivo informare il pubblico, gettando luce su meccanismi e processi che sempre di più incidono sulle nostre vite ma che molto spesso rimangono nascosti o ignorati e toccando temi come la privacy, il controllo, la proprietà intellettuale.
A Torino una selezione dei suoi lavori è attualmente esposta alla Galleria Giorgio Persano per la mostra Systems of Systems, in cui Cirio riformula le critiche all’informazione radicate nella prima arte concettuale, introducendo i diagrammi di flusso come mezzo artistico con cui esplorare i vari aspetti della tecnologia dell’informazione che monitorano e influenzano costantemente il nostro quotidiano.
Questa intervista è stata fatta in occasione dell’opening della mostra “Exposed” alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, il 17 luglio. Qui si espongono tre cicli di lavori dedicati al tema del volto, spazio simbolico in cui si gioca la dinamica conflittuale tra privato e pubblico, libertà e sorveglianza. Da questi lavori emerge il circolo vizioso di sottomissione ed esibizionismo in cui siamo invischiati quando siamo in rete, subendo da essa il furto dei nostri dati mentre ne alimentiamo più o meno consciamente la fame di immagini.
Nell’opinione comune l’attività di un hacker è tipicamente associata all’anonimato. Come mai hai scelto di rivelarti pubblicamente, esponendoti così a rischi notevoli, e come riesci a tutelarti da questi ultimi?
«Per un hacker essere anonimi è in effetti molto importante per motivi di protezione e anche io lo sono stato per diversi anni. Per quanto da sempre fossi stato attratto dall’arte, c’è stato un momento della mia vita in cui ho deciso di dedicarmi solo all’attivismo, ad esempio durante i fatti di Genova del 2001 o le guerre in Afghanistan e in Iraq: in quel periodo sono sempre stato nell’anonimato anche perché ritenevo giusto che il mio ego fosse messo da parte. La scelta di uscire dall’anonimato è avvenuta verso il 2005 quando mi sono sentito pronto, ovvero sicuro delle mie idee artistiche e politiche e capace di articolarle con competenza, quindi anche in grado di assumerne piena responsabilità. Questo ha avuto l’effetto di rendere le questioni stesse più importanti, rendermi visibile come artista e paradossalmente di proteggermi anche più dell’anonimato: uscire dall’anonimato come attivista è un atto di coraggio con cui dimostri di non avere paura delle conseguenze di ciò che dici e questo può mettere in difficoltà chi vuole attaccarti.
È anche vero che diventare troppo noti comporta i suoi rischi e per questo non escludo che la mia identità possa attraversare una nuova fase: dopo l’anonimato e il pubblico, potrebbe arrivare il momento della moltiplicazione…».
Il tuo lavoro illustra il grande processo di digitalizzazione della realtà che caratterizza l’era in cui stiamo vivendo e rende consapevoli del fatto che la nostra presenza nella società e nel mondo ha un riflesso metafisico fatto di dati e flussi di informazioni sempre più rilevante per le nostre vite. Avendo una coscienza dell’interno di questi processi, come vedi il futuro prossimo di questa realtà in trasformazione? Pensi che sia possibile un risveglio della coscienza tale da provocare una reazione di rigetto o si proseguirà in maniera adattativa?
«Direi che la risposta sia si ad entrambe le domande, ci si adatta rigettando. A mio parere la questione è più semplice di quanto non si dica; ci troviamo di fronte ad un medium che era nuovo forse dieci anni fa ma di cui già adesso capiamo il linguaggio, i rischi e le potenzialità, il che ci consentirà tra dieci anni di utilizzarlo molto bene. In questi anni stiamo assistendo ad una riappropriazione umana, anzi umanista, di questo medium, che risponde a quello che a mio parere è il problema di fondo, ossia l’aver perso di vista la centralità dell’uomo nell’ambito tecnologico. Le nuove regolamentazioni e le nuove abitudini delle persone indicano un progresso verso un utilizzo più consapevole della tecnologia, che, per quanto più invasiva, si sta a sua volta ridisegnando attorno a valori più umani e sociali. Non a caso si sta iniziando a parlare di etica della tecnologia, ad esempio. A questo proposito ho scritto un testo, Aesthetics of Information Ethics (2017) dove parlo proprio del valore etico e delle conseguenze che derivano dai modi di rappresentare la tecnologia. Per questo, a mio parere, l’arte deve assumersi la grande responsabilità produrre una rappresentazione della tecnologia come strumento al servizio dell’uomo e del suo miglioramento».
In molti dei tuoi interventi politico-artistici, come P2P Gift Credi Cards (2010) o Obscurity (2016), l’intento critico si accompagna a quello propositivo, proiettando possibili scenari distopici o utopici della società contemporanea. Quali sono, a tuo parere, i presupposti per la riuscita di un sistema politico, economico e sociale efficiente e giusto, nel contesto dell’era digitale che stiamo vivendo?
«Penso che l’aspetto fondamentale rimanga il non dimenticare i valori umani ed etici che sono stati costruiti nei secoli e che, per quanto non abbiano portato alla democrazia perfetta, hanno delineato dei sistemi di ordinamento e bilanciamento efficaci. Con il suo avvento, la tecnologia ha sconvolto questi sistemi e ora occorre riassestarli all’interno della sua dimensione, affinchè sia possibile controllarla e sfruttarne il pieno potenziale. Per fare un esempio, io sono sempre stato contrario ai Bitcoins proprio perché si tratta di una tecnologia incontrollabile, che può essere abusata da tutti e che manca di un ente, che dovrebbe essere necessariamente internazionale, in grado di garantirne l’equità. Ritorno anche qui all’importanza del ruolo dell’arte nel fornire una rappresentazione adeguata di questa realtà: l’aumento di consapevolezza che ne deriva potrebbe infatti stimolare una volontà politica, ad oggi ancora latente, che produca leggi che siano altrettanto adeguate».
Guglielmo Hardouin