Umbertide (Perugia), 19 ottobre 2012. L’antico maniero domina le colline, riscaldato da un sole autunnale che scivola nel buio della sera. A Zanele Muholi (Umlazi, Durban 1972, vive e lavora a Cape Town) piace molto un muro esterno. È lì che si fa fotografare, più minuta di quello che si potrebbe immaginare. La lunga intervista, iniziata all’aperto, continua nel salone del castello, vicino al grande camino di pietra grigia, sotto lo sguardo degli antenati della blasonata famiglia Ranieri. Durante le sei settimane di residenza a Civitella Ranieri (la fondazione è diretta da Dana Prescott), che ospita contemporaneamente quindici tra artisti visivi, musicisti e scrittori, la fotografa sudafricana con il documentario Difficult Love (realizzato nel 2010 con Peter Goldsmid) ha partecipato a varie rassegne tra cui Some prefer Cake. Bologna Lesbian Film Festival, Florence Queer Festival (sarà anche al Film Africa Festival di Londra 1-11 novembre).
Fin dal suo esordio, nel 2004, Muholi ha dato alla sua opera l’accezione di “attivismo visivo”. Un modo diretto per affrontare i problemi della comunità lesbica sudafricana e affermarne i diritti. È portavoce del FEW – Forum for the Empowerment of Women e nel 2008 ha dato vita ad una squadra di calcio femminile a Umlazi, gestita dalla sorella Lizzy.
Zanele non trattiene il suo orgoglio quando sul suo pc, dopo tante immagini di violenza, appaiono le foto della squadra del Thokozani Football Club – TFC (chiamata così in memoria di Thokozani Qwabe, assassinata nel 2007 perché colpevole di amare un’altra donna), in trasferta a Parigi in occasione di Foot for Love per disputare, nel celebre stadio di Parc Des Princes, la partita con Les Dégommeuses. Ecco quello che ci racconta di lei e del suo lavoro.
“Per essere considerati cittadini alla pari nel nostro paese, noi lesbiche nere abbiamo bisogno di essere visibili in qualsiasi maniera”, scrivi nel libro Faces and Phases (2010). Perché la scelta del bianco e nero per questa serie di ritratti, un work in progress che hai iniziato nel 2006, in cui le donne – tutte lesbiche e nere con nome e cognome – intercettano lo sguardo dell’osservatore?
«Ho iniziato a fotografare in bianco e nero perché, questo è stato il primo approccio che ho avuto con la fotografia analogica. Alla scuola di fotografia sviluppavo e stampavo. Mi piace la sospensione temporale del bianco e nero. Quando fotografo le donne lesbiche nere lo faccio da una prospettiva interna. Identifico me stessa come lesbica africana cresciuta all’interno di questa comunità. Ci sono diversi modi di vivere la sessualità, c’è la lesbica mascolina, quella femminile e un altro tipo che è a metà tra i due. Non esiste uno stereotipo, ecco perché è molto importante che la gente sappia prima di giudicare».
All’inizio degli anni ’90 ti sei trasferita a J’oburg, facendo vari lavori tra cui la parrucchiera. Cosa ti ha spinta a studiare fotografia al Market Photo Workshop di Newtown?
«Mi sono trasferita a Johannesburg per provare ad entrare alla scuola di cinema, ma non ci sono riuscita. Sono rimasta lì e per mantenermi ho lavorato soprattutto come parrucchiera, un lavoro che sapevo già fare. Nel 1999 a Johannesburg fu organizzata la conferenza dell’ILGA – International Lesbian Gay Association e in quell’occasione ho conosciuto Bart Luirik, fondatore del web magazine Behind the Mask, con cui ho iniziato a collaborare. Scrivevo e fotografavo quello che stava accadendo. Il mio interesse, però, da subito è stato più per la fotografia che ritengo abbia una visione molto più ampia rispetto alla scrittura. Così mi sono iscritta al corso di fotografia del Market Photo Workshop, che ho frequentato dal 2001 al 2003. L’anno successivo ho partecipato alla prima mostra. Quel corso ha avuto un ruolo chiave nella mia vita, perché quando ho iniziato a frequentarlo mi sentivo profondamente frustrata, avevo dei problemi psicologici. La fotografia è stata una terapia».
Dal 2004 la battaglia di cui ti fai portavoce – “sono un’attivista prima di essere un’artista”, dichiari – non riguarda solo i pregiudizi, ma è una denuncia della violenza. In Sudafrica, infatti, è diffusa la pratica dello “stupro correttivo”, ovvero la rieducazione all’eterosessualità. Sembra un paradosso, in considerazione del fatto che la legislazione sudafricana riconosce le unioni civili e le adozioni da parte di coppie omosessuali.
«Quello era un periodo di grandi cambiamenti in Sudafrica. Non solo del paesaggio, anche degli usi e costumi. C’era molto interesse per le comunità e i movimenti di lesbiche e gay e, in generale, per le politiche sessuali, ma si parlava di noi dall’esterno, mentre c’era bisogno che se ne parlasse soprattutto dall’interno. Non c’erano abbastanza documenti, soprattutto fotografici, che fornissero informazioni al pubblico. Questo è il motivo per cui, nel 2004, ho deciso di farne una missione. La visibilità è fondamentale. Il mio non è un lavoro artistico, ma di attivista che è focalizzato sulla documentazione di un gruppo di persone che esistono all’interno della società sudafricana. Dire chi siamo, raccontare come viviamo è un gesto politico. Il Sudafrica ha una costituzione, emendata nel 1996, che condanna discriminazioni razziali e di genere, ma come si fa a godere della libertà quando ci sono bambini, donne e lesbiche che vengono violentati? Come attivista devo testimoniare e denunciare queste realtà, la brutalità di queste aggressioni in cui spesso le vittime, per lo più giovani, vengono assassinate. Dati che sono in aumento in questi ultimi anni, di cui però non si parla nei media. Una protagonista di Difficult Love è stata violentata da un vicino di casa nel 2010, ma il processo è ancora in corso. Millicent Gaika è una delle poche sopravvissute dello “stupro correttivo”, che nella maggior parte dei casi finisce con l’uccisione della vittima. Ma non c’è solo la violenza fisica, c’è anche quella psicologica perché quando avviene uno “stupro correttivo” tutti lo vengono a sapere. Ecco perché ognuno ha la responsabilità di denunciare qualsiasi forma di violenza».
Nella serie a colori dedicata alla drag queen Miss D’vine (esposta ai Rencontres de Bamako 2009 e pluripremiata, tra gli altri dalla Fondation Blanchère e da Casa Africa), tra i tuoi referenti viene citato Samuel Fosso. Ci sono altri autori a cui ti sei ispirata?
«Ci tengo a precisare che non ho usato il colore solo per la drag queen, fotografo spesso a colori. Non c’è una regola, dipende dal mio stato d’animo del momento. Tutte le persone che fotografo, poi, non sono soggetti, ma fanno parte del nostro progetto. Partecipano perché il messaggio possa utile agli altri. Hai citato Samuel Fosso, in realtà ci sono molti altri artisti a cui mi ispiro. Di Fosso mi piace il modo in cui gioca con il proprio corpo, si relaziona al proprio spazio e presenta se stesso al pubblico. Il suo lavoro, con tutte le sue variazioni, mi ha ispirato molto anche nel modo di autoritrarmi. Mi ha aperto l’idea di me stessa».
Anche l’autorappresentazione, infatti, rientra nel tuo lavoro. Hai utilizzato il tuo corpo come strumento di autodefinizione, affermazione e rivendicazione, come nel video What don’t you see when you look at me? (2008).
«Uso l’autorappresentazione per riflettere sulla mia esistenza. Ma, dato che per la maggior parte del tempo fotografo la gente, arriva anche il momento in cui mi fermo e mi faccio fotografare dagli altri. Un modo per capire anche cosa vuol dire stare di fronte alla macchina fotografica. Ho realizzato quel video sperimentale durante il corso di Body & Culture of Modernity del Master in Fine Arts alla Ryerson University di Toronto, quando guardando le immagini che ci erano state fornite ho realizzato che non c’erano corpi femminili neri a cui potermi relazionare. Si conosce il personaggio di Sarah Baartman, perché chiunque associa l’idea della sessualità del corpo femminile nero a questa Venere ottentotta che in Francia diventò uno “zoo umano”. Così abbiamo la storia di come il corpo nero sia stato rappresentato come caricatura entrando nella storia dell’arte. Ma per parlare dell’invisibilità e introdurre un’altra prospettiva in quel progetto, ho sentito che non potevo usare altri corpi se non il mio».
Ti è mai capitato di avere problemi di censura? Nel 2010 il ministro delle Arti e della Cultura Lulu Xingwana, all’inaugurazione di una mostra di artiste nere, bollava le tue immagini di una coppia di lesbiche come pornografiche, abbandonando con rabbia la mostra. Recentemente, invece, hai subito il furto dell’archivio dei crimini d’odio a cui stai lavorando da parecchi anni.
«La prima volta che mi sono scontrata con la censura è stata nel 2004, quando lavoravo per l’ufficio del turismo. C’era un programma educativo, ma il mio progetto fu respinto perché le donne che avevo fotografato erano tutte lesbiche. La responsabile, pur sapendo che la sua decisione era contro la legge, disse che non avrebbe supportato alcun progetto in cui ci fosse promiscuità, arrivando addirittura a lasciare il suo incarico. La seconda volta è stata quella a cui ti riferisci. La mostra era stata realizzata in occasione del Women’s Month. Lei andò via senza inaugurarla dicendo che le mie foto erano pornografiche. Questo in un momento in cui molte lesbiche nere subivano “violenza correttiva”. Ero dispiaciuta e, allo stesso tempo, arrabbiata perché quelle parole erano state dette da una donna, una madre, ma soprattutto da una persona con una voce influente che avrebbe potuto causare altre violenze».
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Non ho alcuna prevenzione o posizione moralistica contro gli omosessuali, ma ritengo che considerare il lavoro fotografico di Zanele Muholi una battaglia politica utile a favore della dignità umana degli omosessuali (uomini o donne che sia) sia soltanto un esibizionismo voyeristico se non pornografico estremamente controproducente rispetto alla causa degli omosessuali.
Personalmente io provo disgusto di fronte a quelle foto. E posso immaginare che cosa provino gli abitanti dei paesi africani.
Il talento di questa brava artista potrebbe essere usato in maniera migliore e più creativa. Soltanto la vera creatività artistica è portatrice di libertà, dignità, bellezza e conoscenza.
Fare dell'arte uno strumento politico e usandola come uno strumento di guerra per me è assolutamente contrario alla natura dell'arte.
Pino Mercuri
PS. Non sono cattolico, né reazionario o conservatore. Ma trovo che la scelta estremistica di Zanele Muholi sia soltanto iper-conformistica che viaggia sull'onda di una parte delle ideologie correnti, mentre l'arte dovrebbe essere universale. Certi cambiamenti antropologici e sociali avvengono grazie a una progressiva azione culturale da parte di tutti e non a una banale e conformistica provocazione che se pur provocasse una rivoluzione, sarebbe una delle tante rivoluzioni che hanno sempre portato alla dittatura totalitaria di destra o di sinistra..