Dep Art ha aperto le sue porte per la prima volta in via Giuriati, zona est di Milano, nel 2006. Mario Nigro (prima mostra personale della galleria), Natale Addamiano, Alberto Biasi, Franco Rognoni, Salvo, Dadamaino sono gli artisti della scuderia di Antonio Addamiano (sopra, con Alberto Biasi), che ha iniziato questa professione poco più che ventenne. Oggi la nuova sede, quella che lui chiama la “galleria della vita”, è in un bellissimo spazio in via Comelico, un ex asilo completamente stravolto e bianchissimo e che, fino al 17 dicembre, ospita appunto “Light Vision”, una selezione di splendidi pezzi di Biasi. Lo abbiamo incontrato, per tracciare il punto della situazione non solo sulle questioni della galleria, ma anche del sistema italiano.
Mi racconti come è nato tutto?
«Il mio percorso è partito da zero, con l’arte nel DNA, con mio padre artista e docente di pittura a Brera, e prima di fare questi 11 anni di galleria, ho fatto tre anni di galleria senza avere la galleria: stavo in un magazzino, dove ho scelto la mia squadra di artisti futuri, partendo con le opere di Addamiano, dei migliori giovani di Brera e di alcuni artisti amici di mio padre, e ho iniziato un poco a destreggiarmi, a fare esperienza. E il miglior modo di fare esperienza, per un gallerista, è perdere soldi alle fiere. La prima, la fiera di Bari andò bene, poi seguirono molti zero. Poi ci sono coincidenze strane: all’inizio quando mi presentavo molti giocavano con il mio cognome: “Com’è che ti chiami? Addamiano, Dadamiano, Dadamaino?”. Non la conoscevo, me la sono andata a studiare: all’epoca costava 2mila euro».
E così hai preso Dadamaino…
«All’epoca avevo quattro maestri e quattro giovani, Dadamaino è stata un’occasione incredibile, mentre Nigro – per esempio – è stato un rapporto di amore-odio. Dopo Dadamaino sono passato a Simeti e Pinelli, anche se l’anno prossimo farò una nuova mostra di Nigro, in occasione del centenario».
Chi deve ancora esplodere?
«Io vedo le esplosioni dall’esperienza pratica, ovvero da quanto un artista abbia un cospicuo corpus di lavori. Per riesplodere ci vuole un artista bravo, con un linguaggio eterogeneo; poi serve un buon archivio, presenza in gallerie estere e la credibilità».
E le aste?
«Le aste vengono dopo. Serve mettersi in gioco».
Tu hai collaborato con l’Archivio Scanavino in passato e oggi curi anche quello di Turi Simeti. Quali sono le questioni legate a questa dimensione della “conservazione” delle opere?
«La credibilità di un archivio è una questione importantissima, ed è un problema annoso specialmente in Italia. Abbiamo la fama di avere avuto i più bravi artisti del Novecento, siamo stati insieme agli Stati Uniti il Paese della Pop, eppure con la storia degli archivi non riconosciuti, delle vendite in nero, della mancanza di una definizione legislativa e giuridica, c’è una stata una forte penalizzazione della storia dell’arte italiana».
Cosa serve per fare un buon archivio?
«È necessario non improvvisarsi. Un buon archivio tiene conto di tutta la produzione di un artista. Vi sono archivi che trattano solo di alcune serie, chiedendo soldi per autentiche, per fare expertise. Bisogna scardinare questo meccanismo. Un archivio, se fatto bene, fa un grande successo per un artista. Per Simeti è stato entusiasmante, ma è necessario evitare clientelismi, e a volta bisogna anche cercare di evitare di guardare in faccia chi si rivolge a te. Imparzialità, per le opere».
Quali problemi riscontri ancora nel sistema italiano?
«Il nero nell’arte non deve più esistere. L’IVA è altissima, certo, ma nessuno va ad esporre i problemi davvero, perché solo pochi sono puliti. In Italia siamo veramente pochi a gestire la galleria come un’attività aziendale. Sulla vendita dei propri artisti, solo in Italia abbiamo l’IVA al 22 per cento e la SIAE sulla prima vendita. La SIAE dovrebbe riguardare solo il mercato secondario, e sarebbe giusto farla pagare a tutti, obbligatoriamente, ma solo sul margine di guadagno, non sull’intero valore. Allora si elimina completamente l’evasione e tutti sarebbero incentivati da una giusta tassazione a rimanere in Italia ed esportare i nostri artisti da qui. Alla fine tutti quelli che hanno un buon giro d’affari hanno trasferito le loro sedi a Londra e Lugano, ti basta un mese delle nostre tasse per pagare un affitto della galleria estera.
Su cosa punti ?
«Punto il più possibile sull’artista, sul magazzino, su mostre che abbiano sempre un curatore ed un catalogo, ed evito in toto le cazzate: megamacchine, megaserate, megafeste».
Cosa è cambiato in dieci anni?
«La fascia medio alta ha imparato a rispettarmi, quando Dadamaino, Biasi, Simeti, Scanavino e Pinelli, sono arrivati ai grandi galleristi internazionali erano già passati dalla mia galleria con mostre personali e cataloghi. E visto che ci sono i libri che documentano tutto questo hanno dato importanza al mio lavoro».
Come mai qui e non Porta Venezia, per esempio ?
«Avevo scelto via Ventura da ragazzo ma mi hanno detto di no; era il momento d’oro dell’arte contemporanea a Milano, poi molti di quelli che all’epoca erano là oggi hanno chiuso. Qui, invece, ho fatto tutto come volevo. E oggi anche i più “snob” vengono. Volevo uno spazio interno perché non credo alle gallerie su strada; collezionisti più o meno famosi hanno bisogno di uno spazio “intimo” per essere gestiti e sentirsi tutelati».
Quanto ci metti a preparare una mostra?
«2-3 anni per progettarla, 2-3 mesi in fase finale. Su Piero Fogliati, per esempio, abbiamo recuperato tutte le mostre e riordinato la bibliografia, e abbiamo prodotto uno dei suoi pochi cataloghi di galleria dettagliato. Diventa un’operazione che apre nuovi canali».
E le fiere come le scegli?
«Sono a Verona dalla prima edizione, e poi da ragazzino facevo tutte quelle che costavano poco. Poi oggi Miart, che è diventata fortissima, dove con i miei artisti sono gallerista di riferimento, e li faccio duettare con artisti internazionali. Ora siamo in lista d’attesa per l’Armory, che è un primo passo… A Bologna sono entrato con Salvo, 6 anni fa, e di fronte avevo Mazzoleni, Ben Brown e Sperone: all’epoca c’era vera selezione. Ma sai qual è la verità? Nelle fiere andrebbero inserite gallerie di rappresentanza e non commerciali; se io avessi opere di Kusama ritirate dal secondo mercato, non partecipo o vado a Basilea o Colonia: se è presente Zwirner io resto a casa. È inutile, no?».
E all’estero?
«Da cinque anni ho puntato sull’Olanda, perché avevo un amico cliente e che mi ha dato un ottimo consiglio e l’anno prossimo facciamo Tokyo: quei pochi che verranno a vederci sono sicuro saranno nuovi collezionisti per noi. Altrimenti chi viene a vedere uno stand italiano in Giappone?».
Come vive una galleria?
«La prima spesa di una galleria solida, in effetti, sono i costi di fiera. Però serve: per conoscere nuovi collezionisti e altri galleristi, per stringere collaborazioni; l’arte è il settore più assurdo al mondo: chiunque può farla, e come crede. Io voglio evitare di farla come capita».