Il Governatore uscente della Regione Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, per la sua rielezione punta su Mauro Felicori, manager e uomo di cultura, capolista di una squadra di esperti scesi in campo per le prossime elezioni del 26 gennaio. In questa di clima di incertezza in cui la vittoria del centro-sinistra in Emilia-Romagna sembra non essere così scontata, Bonaccini e Felicori propongono un programma che continua e accelera gli investimenti sulla cultura e sulla formazione dei giovani. Abbiamo rivolto alcune domane al riguardo a Mauro Felicori, alla vigilia di un incontro importante con gli elettori nella sua Bologna, “Il futuro della cultura in Emilia-Romagna”, al teatro San Leonardo.
Direttore, com’è nata questa sua scelta di scendere in politica?
«È stata una richiesta precisa del Presidente Bonaccini che ha deciso di affiancare una lista di personalità indipendenti a quella dei partiti che lo sostengono. Il suo obiettivo è quello di rendere più ricca l’articolazione politica della compagine del centro-sinistra, incrementandola con i rappresentati delle classi medie professionali. Nella lista, assieme a me ci sono un informatico, un cardiochirurgo vascolare, un architetto, un giornalista, un imprenditore. La scelta di Bonaccini poi di rendermi capolista è significativa dell’importanza che ha per lui la cultura. E di qui il motto, “La cultura capolista”».
Un esempio concreto dell’interesse del Presidente Bonaccini per la cultura?
«Consideri che in tempi di tagli – che durano forse da vent’anni o trenta – il governo Bonaccini ha triplicato le spese per la cultura e ha cominciato a far lavorare insieme l’Assessorato alla Cultura e quello all’Economia, un’alleanza che ha prodotto leggi importanti come quella per il Cinema e quella per la Musica, finalmente intese come vere e proprie filiere industriali. È un primo passo, questo, per una gestione dei Beni Culturali che sia incidente anche sul valore del Pil.».
Crede quindi che ci sia un sistema Emilia-Romagna per la cultura esportabile nel resto del Paese?
«In linea generale il sistema Emilia-Romagna è uno dei migliori in Italia. Ma a piace sempre mettere l’accento sul fatto che non basta difendere e conservare gli obiettivi raggiunti ma bisogna continuare ad innovare. Anche perché l’Emilia-Romagna, come le altre Regioni ricche del nord Italia, si sono costruite su una certa abbondanza di risorse pubbliche che oggi non ci sono più. Siamo tutti chiamati a reinventarci. Questi risultati raggiunti, di cui possiamo essere orgogliosi, non sono un tetto ma un trampolino per nuovi traguardi. Penso alla necessità, per esempio, di un approccio alla cultura non solo legato alla formazione – in cui in Emilia-Romagna siamo imbattibili – ma anche alla produzione industriale della cultura e delle arti. Ed è questo è uno dei punti chiave del mio programma».
Un altro è la lotta alle diseguaglianza proprio attraverso la cultura. Come si può attuare questo proposito?
«La diseguaglianza sociale è sempre e prima di tutto una diseguaglianza culturale. La cultura può essere uno strumento che risana questa differenza ma può anche confermarla se non è indirizzata verso questo obiettivo. Bisogna agire concretamente perché la parte meno istruita della popolazione sia accolta di più e meglio dal nostro sistema culturale, senza vivere questo rapporto come una situazione frustrante e per nulla appagante. E i dati ci dicono che un italiano su due non è mai entrato in un museo, per cui c’è ancora molto da fare.»
Come Direttore della Reggia di Caserta è ricordato per aver raddoppiato il numero di visitatori nel pur breve periodo del suo mandato. Quale può essere un modo concreto per riportare questo successo anche in Emilia-Romagna?
«In Italia il problema è che i Beni Culturali non sono gestiti in modo imprenditoriale, dimenticando il rapporto con il pubblico. La riforma Franceschini ha avuto il merito di iniziare a promuovere una rivoluzione manageriale per cui i Direttori dei musei, scelti non nel Ministero ma sul Mercato, iniziavano a sentirsi direttori di azienda, imprenditori chiamati a creare il desiderio di entrare nel proprio museo. A Caserta io sono riuscito a ottenere solo uno dei due grandi risultati che mi ero prefissato, ovvero l’aumento del pubblico portando le presenze da circa 400mila a più di 800mila visitatori l’anno. Per il secondo obiettivo, quello di rendere l’esperienza della visita più accattivante, purtroppo non ho avuto tempo. Per essere onesti, l’incremento del numero di ingressi, in misura diversa, è stato registrato da tutti i miei colleghi e questo non può che evidenziare come eravamo sulla strada giusta. Purtroppo viviamo in un Paese in cui questa riforma è stata bloccata per difendere i soliti interessi corporativi e di casta.
Tornando alla domanda, nel caso specifico dei musei dell’Emilia-Romagna, come prima osservazione posso dire che questi hanno bisogno di un apporto più concreto delle nuove tecnologie, per proporre visite che siano per il pubblico più emozionanti, gratificanti ed esperenziali di quello che sono oggi. Bisogna concepire i musei non solo come una raccolta di opere ma anche come un luogo di esperienza».
A conclusione di questa nostra conversazione, le chiedo il suo punto di vista sui giovani anch’essi al centro del suo programma politico. Ha senso oggi investire la propria formazione in cultura?
«Nella mia lunga carriera all’interno del Comune di Bologna ho capito che diecimila persone iscritte in corsi di laurea legati alle arti possono essere considerate o un pericolo o un’opportunità. E se fai questa seconda scelta, devi avviare un piano di sviluppo delle Arti che sia un’occasione di crescita. Bologna e l’Emilia-Romagna tutta deve diventare un centro di produzione e non solo un luogo di formazione. Non possiamo vivere in una Regione forte solo nel settore della meccanica o in quello dell’alimentare. Dobbiamo puntare sullo sviluppo delle arti e dell’audio-visivo. Questa è una delle ragioni per cui sono entrato in questo agone, sperando di poter portare avanti quanto prefissato».
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