08 maggio 2020

La “cura” al tempo del Coronavirus. Intervista a Salvatore Iaconesi e Oriana Persico

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Intervista al duo artistico Iaconesi-Persico, precursori di un approccio nuovo al concetto di "cura"

Salvatore Iaconesi e Oriana Persico

La necessità di un approccio nuovo al concetto di “cura” nella nostra società torna a essere un fatto centrale come mai in questi mesi in cui siamo colpiti da un’epidemia di portata epocale e globale. Ne parliamo con Salvatore Iaconesi e Oriana Persico, a 7 anni di distanza dalla loro performance de “La Cura” che prosegue con un’originale sincronia.

Il vostro approccio al concetto di “cura” è stato pionieristico e profetico rivedendolo dalla nostra attuale prospettiva. Il termine “cura” ha diverse teorie etimologiche, “còerea” e “còira”, che gli antichi etimologisti riconducevano a Cor “cuore”; mentre i moderni ritengono che scaturisca da “osservare”, “guardare”. Entrambe queste direzioni mi sembrano complementari in quanto racchiudono due elementi importanti: l’oggetto e il soggetto. Il cuore, nella sua accezione ampia di oggetto vitale, elemento primario che rende possibile la vita, è l’osservatore, colui che deve preservare questa vita, che la deve, appunto curare. La cura allora diventa un qualcosa di non riconducibile solamente alla fase di malattia, dividendo così malato e non malato, bene (il non malato) e male (la malattia), ma diventa una concezione generale, uno stato filosofico più profondo: la cura come modo di vivere nel mondo, come organismo all’interno di un corpo sociale. Mi sembra il vostro ragionamento vada in questa direzione. 

 

S.I.: «Esattamente. Per esempio, la “terapia” è molto diversa dalla cura. Nella terapia, uno prescrive e somministra all’altro: prendi queste pastiglie; fai questi esercizi; o altro. Nella terapia non c’è neanche strettamente il bisogno di stabilire un rapporto: hai i dati e, in base a quelli, prescrivi e somministri. È un rapporto amministrativo, burocratico. Che può essere quello che serve in certi contesti, eh? Ma è bene ricordare a cosa si riferisce: è una cosa che afferisce al dominio dell’utilità in cui sulla base dei dati (ad esempio, clinici) si calcola che “medicine” somministrare. È un rapporto solo nel senso in cui dei numeri entrano in rapporto tra loro in una funzione: un rapporto “calcolante”.

La cura, invece, è tutta diversa. Perché innanzi tutto è fondata quasi esclusivamente sul rapporto. Io stabilisco un rapporto con te e, in base a quello, facciamo una serie di azioni. Incluse, per esempio, delle terapie. Ma non solo. Certo, “prendersi cura” può voler dire anche amministrare delle terapie. Ma non solo. C’è questo elemento del rapporto, della relazione che cambia tutto. Innanzitutto perché nella relazione si è almeno in due. E anche la cura è per tutti e due. Quando “mi prendo cura” di te, fa bene anche a me! Quando mi prendo cura di qualcuno o qualcosa, anche quel qualcuno o qualcosa si sta prendendo cura di me, in più di un senso: lo sanno con certezza tutti quelli che fanno volontariato, giardinaggio, restauro o che si prendono cura del parente anziano, o cose del genere. Quando si parla di malattia, questa cosa è ancora più scioccante, perché si può immaginare addirittura di stravolgere i ruoli. Il paziente che “cura” il medico: eresia! Ed è un peccato che lo sia, e che la maggior parte delle volte i medici si debbano ridurre ad amministratori di terapie. Perché, invece, nella cura, l’esistenza del rapporto rende tutto più umano, dignitoso e soddisfacente per tutti. La cosa ancor più interessante avviene, però, a livello epistemologico. Perché nella dimensione della cura ciò che viene trasformato è il modo stesso in cui si conosce. Perché la cura presuppone il riposizionamento sia del ricercatore che del ricercato. Il primo non è più chiuso nel suo laboratorio a estrarre dati e tessuti dall’ambiente per fare i suoi esperimenti e calcolarne – nella solitudine e nella separazione – i risultati e le conseguenze. Nella cura il ricercatore è in stretta relazione con la società. Le persone sono i suoi partner, i co-investigatori, persino i co-finanziatori: se pensiamo ai soldi pubblici che vanno alla ricerca, si iniziano a poter fare dei cortocircuiti interessantissimi che riguardano lo scegliere cosa ricercare, come, collaborando con quali parti della società, comunicando dove e come i risultati, e mettendoli a disposizione in quali modi.

Ecco: possiamo dire che tutte le nostre opere d’arte parlano praticamente solo di questo.

E in questo periodo sarebbe interessantissimo chiedersi come sarebbero andate le cose, nell’emergenza del Coronavirus, se ci si fosse concentrati più sulla cura che sulla terapia.

Perché è ovvio che tutti i modi in cui sono stati usati i dati, i divieti, le soluzioni tecniche e tecnologiche ricadono nella dimensione della terapia. E allora si apre una domanda ancora più grande: come sono fatte delle istituzioni che sono in grado di operare nella dimensione della cura?

Certamente non come le attuali!»

O.P.: «Parto da una difficoltà: parlare della Cura (www.la-cura.it), come performance e come parte della nostra vita, per me è dura. È un nervo scoperto per almeno due motivi. Spesso mi sembra di non aver capito nulla, di non riuscire a vivere con/nella cura nonostante tutto quello che ho/abbiamo detto e ho fatto. E poi c’è la seconda fase: quella del libro in cui abbiamo riaperto il capitolo, provato a porre la cura come punto di vista, o metodo se vogliamo, con cui affrontare i problemi complessi (che fosse l’educazione o la gestione di un condominio…). È stato un massacro e tutto questo dentro un libro non c’entrava… Dobbiamo ancora scrivere quello che per adesso chiamiamo fra di noi chiamiamo “il lato oscuro della Cura”, e spero che lo faremo presto. Detto ciò, avere a che fare con la malattia, con il nostro corpo esposto e vulnerabile, non è piacevole, ma insegna tantissimo. Dottori che considero sensibili parlano, per esempio, non di malattia/guarigione ma di benessere. Che è uno stato molto fluido, fatto di gradienti: puoi avere il cancro e sentirti bene, o non averlo e stare molto male. O viceversa. Chi è il sano? Chi il malato? Appena ci avviciniamo, questa definizione apparentemente certa si turba e ci turba… Ho capito che se il dottore o l’istituzione si prende cura di te, si occupa di questo stato fluido, perturbante e poco calcolabile: il tuo benessere. In tempo di pandemia la nostra condizione medica potrà significare l’inclusione o l’esclusione dalla vita sociale in senso radicale. In questo futuro che ci si para davanti, cura e terapia hanno quindi un peso politico immenso. Salvatore chiude su queste istituzioni basate sulla cura, tutte da immaginare: è un progetto artistico e politico che può farci esplorare forme di violenza, controllo, bellezza, connessione a venire, anche molto vicine. Penso che avremo bisogno di istituzioni sensibili, in questo futuro: è il tipo di paradosso che può generarsi nello spazio di una performance. Ci abbiamo provato, è difficile ma vale la pena continuare e cercare le vaste alleanze (fra istituzioni, ricerca, scuola e corpi intermedi) che servono per arrivarci… Da soli non si può».

Salvatore Iaconesi e Oriana Persico
Datapoiesis a Torino

Avete parlato spesso di Cultura Ecosistema. Mi è sempre piaciuto più il concetto di ecosistema rispetto ad altri termini come Olismo, o totalità. Questi ultimi, mi sembra abbiano un significato passivo, l’olismo come teoria del tutto, ma un tutto immobile, congelato nel pensiero, nel momento in cui lo pensiamo. Ecosistema, invece, è attivo, è il tutto nella sua produzione, nel suo movimento continuo delle parti. L’epoca che stiamo vivendo ha bisogno di una nuova cultura ecosistemica (non olistica). Era già sotto i nostri occhi, ma non la vedevamo, o non volevamo vederla. Ora si impone, sempre più forte e radicale. Credo, dunque, che il vostro concetto di cultura ecosistemica sarà, non solo una filosofia, ma una vera e propria metodologia per il futuro. 

S.I: «Questa è, secondo me, la più grande opportunità delle tecnologie digitali: il poter portare praticamente qualsiasi cosa nell’ambito di ciò che per noi è esperibile, sensibile e con cui possiamo stringere relazioni. Una volta ci siamo inventati un nuovo genere letterario: l’autobiografia algoritmica. Ti ricordi? Ghostwriter (https://www.artisopensource.net/projects/ghostwriter/), l’abbiamo anche esposto insieme al Palazzo delle Esposizioni a Roma (nella sezione della mostra Human +). Opere come quelle ci aiutano a comprendere come sia possibile avvicinarsi relazionalmente e attivamente – in maniera performativa – a ogni elemento del nostro ambiente. Attacco dei sensori a un edificio? L’edificio, tramite dati, computazione e intelligenza artificiale, può generare la sua autobiografia. A Torino abbiamo iscritto il Castello del Valentino come artista alla settimana dell’arte contemporanea (https://www.artisopensource.net/projects/sul-caldo-e-sul-freddo/): il castello diventava un poeta che raccontava le poesie che lui aveva creato osservando i comportamenti dei suoi abitanti. E camminando per i corridoi del castello sentivi queste poesie e i tuoi comportamenti cambiavano. Livelli di feedback su livelli di feedback, altro che statico!

Il discorso si può fare, ad esempio, su un’organizzazione, su un quartiere, o su un’intera città. Oppure posso mettermi in testa di attaccare sensori e IA a un bosco, o al mare: e anche questi diventano possibili autori di autobiografie, e di poesie e performance artistiche. Siamo pronti? Secondo me siamo già pronti da anni, perché questo tipo di cose già avviene milioni di volte in contesti cui non pensiamo in questi termini: sui mercati, nell’elettronica di consumo, nei nostri rapporti con banche e corporation. Ma basta un piccolo scatto per ricontestualizzarle e cambiarne l’immaginario che c’è dietro, la simbologia, la cosmologia.

Ecco: questo è il motivo per cui nel nostro lavoro Stakhanov ci sono quelle 4 bandiere attorno all’installazione: è una nuova cosmologia in cui ci troviamo circondati di tutti questi attori non umani, ma con cui stabiliamo rapporti. È il momento di pensare – come società, come civiltà – come ci vogliamo posizionare in questa cosmologia, e di accorgersi che in questo cosmo, dati e computazione hanno un ruolo importantissimo, con effetti dirompenti per la nostra esistenza. Di questo, ad esempio, ci possiamo accorgere pensando al ruolo che dati e computazione stanno avendo durante la pandemia: addirittura per la nostra sopravvivenza».

O.P.: «Bello! Mi piace la distinzione fra ecosistemico e olistico. E vi dico perché. Questa sorta di olismo indifferenziate è una delle critiche che si pone al pensiero ecologico, che non condivido, e mi sembra che lo chiarifichi benissimo. Salvatore mi ha regalato un altro concetto importante in questa direzione: l’ecosistema non è lo spazio dell’armonia, in cui tutti vanno d’accordo. E non è basato sul consenso. È lo spazio dei conflitti, ma anche della coesistenza. Un paradosso che oggi comprende esseri umani, software, intelligenze artificiali… L’Italia ha dato vita al Rinascimento: la cultura della prospettiva, l’occhio del progettista (un essere umano) che guarda il mondo con l’uomo al centro a misura di tutte le cose. La cultura ecosistemica è rinunciare a questa centralità per abbracciare una nuova prospettiva: una rivoluzione copernicana. Un amico ci ha detto una cosa bellissima, una volta: “Quando abbiamo accettato che la terra ruotava intorno al sole, abbiamo scoperto l’universo”. O con le parole di Derrick De Kerckhove, compagno di tante performance: la cultura digitale è il salto dal punto di vista al punto di vita. E prima ancora Bateson, con il suo diventare “sensibili” alla “bellezza che connette”, che è un’altra forma di estetica, di guardare e percepire il mondo. E per questo invocava l’arte come strategia – per poter arrivare a concepire forme ecosistemiche di vedere e organizzare il mondo, aggiungo io. La democrazia, per esempio, al momento è basata esplicitamente sulla ricerca del consenso: pensate che salto incredibile c’è da fare per reinventarsi forme di rappresentanza ecosistemiche basata su conflitto e coesistenza! Su questo posso dire una cosa, venendo dal mondo delle istituzioni e dal pensiero ecologista. Quando ho incontrato la poetica e le opere di Salvatore ho capito che senza un ponte “estetico” la politica e le istituzioni non ce la fanno da sole a creare lo spazio di senso e di possibilità per immaginare (e portare nel mondo) queste nuove, possibili forme di organizzazione sociale: l’arte sì. Ma gli artisti, dal canto loro devono imparare a parlare con tanti soggetti differenti per contribuire a questa cultura».

Veniamo all’arte e al ruolo degli artisti. Ci siamo risvegliati da un sogno. Improvvisamente ci siamo resi conto che il mondo dell’arte non era minimamente contemplato dalla società, dai piani legislativi, e dai piani di assistenza del governo. Un risveglio quasi scioccante. Si parla molto dunque di aiuti governativi all’arte, di un sistema dell’arte che non ce la fa, di assistenza economica per gli artisti. Io penso che questo sia fondamentale, occorre, tuttavia, aggiungere qualcosa. Fermarci all’assistenzialismo è continuare a dare una immagine debole, povera, da animale da proteggere, dell’artista. Io credo, invece, che oltre ai finanziamenti di sostegno (fondamentali!) è questo il momento perfetto per dimostrare l’importanza dell’artista nella società, per far vedere come, più che assistere l’artista, è l’artista che può assistere lo stato. Dare dignità a questa figura. L’artista oggi crea innovazione, lavora in centri di ricerca, da nuove intuizioni a innovatori e scienziati. Voi ne siete un esempio. Perché non introdurre artisti nella task force del governo, perché non coinvolgerli in progetti di innovazione? È questo il momento per riportare l’artista di nuovo all’interno della società. Voi siete stati un modello e lo potrete essere per il futuro.   

S.I.: «Io penso che sia una questione complessa. Anche perché, per mancanza di parole migliori e di una cultura diffusa pronta per recepirle, stiamo chiamando nello stesso modo persone e gruppi che fanno mestieri completamente differenti. Per esempio noi. Il lavoro che facciamo è quello di comprendere come le tecnologie entrino nella società. E le tecnologie entrano nella società dalla psicologia, dall’estetica, dalla socialità, dalla relazione, dalla comunicazione. Certamente non attraverso un qualche misterioso nome di protocollo impronunciabile. Per studiare questa cosa, succedono due cose. La prima è che serve saper fare tantissime cose: ingegneria di tanti tipi diversi, psicologia, antropologia, sociologia, statistica, data science, linguistica, e tanto tanto altro. La seconda che serve ricondursi a quella differente dimensione epistemologica di cui parlavamo parlando della cura: non si può stare chiusi dentro il laboratorio. Per fare la prima, serve un centro di ricerca transdisciplinare. Per fare la seconda servono degli artisti. Ma degli artisti un po’ particolari, che sappiano anche come si conduce un centro di ricerca transdisciplinare, naturalmente incluso come un centro di ricerca ottiene i fondi, come opera con le istituzioni e con gli altri centri di ricerca, come si assicuri di operare tramite il metodo scientifico, ecc. Ovviamente nessuna delle università esistenti ha anche solo l’immaginario di cosa sia una entità del genere.

E allora io e Oriana ce lo siamo dovuti creare da soli, e si chiama HER She Loves Data.

Ed è difficilissimo: tante volte le persone non capiscono cosa sia. Tante volte diciamo di far altro per “entrare” a fare delle cose che vogliamo fare e, per ottenere questo risultato, facciamo quello che abbiamo promesso più altre cose non richieste, per diffondere la cultura e l’immaginario che queste cose di cui parliamo sono possibili e desiderabili. A volte ci capita il ministero o l’organizzazione che proprio non capiscono e che vogliono solo quello che era in programma, e che col resto proprio non sanno che farci. Lo sapranno tra due o tre anni, e chissà se ricorderanno che qualcuno gliel’aveva già offerto.

Pazienza: il gioco dell’immaginario è un gioco difficile e rischioso (dal punto di vista imprenditoriale). Ciononostante nel nostro piccolo centro riusciamo a lavorare in questo modo con la commissione europea, il governo italiano, i ministeri, le università, le aziende.

Se mettere artisti, curatori, ecc. in mezzo alle task force? Dipende. Innanzitutto dipende dal chi. Come noi, per fortuna, ci son tanti che si stanno facendo domande interessanti e anche trovando delle risposte. E poi dal come: il rischio è di avere un ruolo decorativo. Ci è successo più volte. Di essere convocati, perché l’artista “ci sta bene”, e poi di essere lasciati in fondo, se rimane tempo. Perché aspettarsi un contributo strategico dall’artista è un bel salto evolutivo. Se non si è certi di poter avere la forza di sostenere il proprio punto di vista/vita a volte è meglio operare in maniera differente. C’è chi si rivolge al mercato, c’è chi usa la comunicazione, c’è chi fa ancora in altri modi.

E, oltretutto, c’è anche da stabilire un punto iniziale: che io non amo molto queste task force. Sono organismi opachi che propongono la figura dell’esperto in un modo che permette alle istituzioni di rinunciare ad assumersi responsabilità: lo dicono gli esperti».

O.P.: «È vero. Nella nostra attività ci pagano città, istituzioni, aziende, fra progetti e bandi. È rarissimo, residuale direi, che un museo o una galleria ci commissioni un’opera. Per esempio, l’unica opera acquisita da una collezione è OBIETTIVO. E parliamo della Collezione Farnesina: un esperimento del tutto particolare nato dentro il Ministero degli Esteri… Credo che sia anche per il tipo di azione a cui siamo protesi: far accedere delle cose nel mondo, più che esporre. E non ho niente in contrario, tant’è che lo facciamo con gioia. Nel tempo ci siamo inventati una Fake Cultural Institution globale (il REFF, che probabilmente ti ricordi); Fake Press, una casa editrice per pubblicazioni ubique; e infine il centro di ricerca, che è la forma organizzativa e l’interfaccia burocratica che ci consente di dialogare e anche di lavorare con tutte queste differenti realtà: siamo anche imprenditori! Facciamo i tripli salti mortali, sempre in bilico fra definizioni, traduzioni di mondi differenti e universi di senso sconosciuti. Anche all’università: ci insegniamo, ma non siamo accademici. In questi giorni stiamo formando un governo. Non un governo, ma “Il Governo Necessario”: la nostra ultima azione con Il Manifesto ha deciso di dare voce al governo che non c’è, ma che saprebbe trasformare questa tragica pandemia nell’occasione di cambiare rotta. Uno spazio in cui (almeno) 25 intellettuali, persone dell’arte, della cultura, della scienza indossano i panni del presidente del consiglio e pronunciano alla nazione il messaggio che non è stato pronunciato, ma che è necessario ascoltare. Abbiamo passato il 25 aprile al telefono formando il governo, in barba al social distancing: è stata per me una delle feste di Liberazione più sentite. C’è bisogno di spazi per l’immaginazione sociale, e di uscire da 30 anni di populismo: le istituzioni hanno perso la capacità di generare fiducia e visione. Il moltiplicarsi di esperti e task force di esperti lo racconta benissimo».

 

 

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