Prima di salire sul palco, nel borgo di Castelbasso in Abruzzo, Erri De Luca ha cercato la montagna, ha trascorso del tempo sulla cima del Gran Sasso. L’ambiente che tanto ama ma che continua a insegnare a l’uomo una chiara legge di cui lo scrittore dice chiaramente: «Siamo delle minuscole creature di passaggio su questa superficie». Preferisce scrivere di primo mattino, perché la notte è fatta per il congedo. Conosce l’ebraico – lo studia, lo cita, lo traduce – e alla pronuncia dei suoni è come se si facesse anello di congiunzione con il popolo che ha conosciuto il deserto.
Afferma di risiedere nel vocabolario italiano e del dialetto cita la parola più breve al mondo a cui lui è molto affezionato. Parla del suo libro Impossibile (2019, Feltrinelli), della libertà che abita nell’amore. Sostiene che stiamo vivendo un tempo nuovo, non un intervallo.
Noi lo abbiamo intervistato venerdì 28 agosto 2020, in occasione della serata conclusiva del FLA – Festival dei libri e altre cose, diretto da Vincenzo d’Aquino e organizzato in collaborazione con la Fondazione Malvina Menegaz.
Da cosa nasce l’impossibile? Da una coincidenza che insospettisce o – come accade nel libro – dalla convinzione che la coincidenza, in realtà, non esiste?
«Le coincidenze esistono, per me. E se non le chiamassi coincidenze, dovrei chiamarle “Provvidenza”. E dovrei aggiungere, a questo, anche una mia interpretazione di fede e di adesione a un progetto che c’è intorno alle nostre vite. Invece io, analfabeta di questi sentimenti e di queste sensazioni, mi limito a considerarle delle coincidenze».
Cosa ci insegna il sospetto, invece?
«Nella storia del libro Impossibile, il sospetto è quello che tiene insieme ogni procedimento giudiziario. E ogni procedimento giudiziario si basa sul sospetto che l’imputato abbia commesso dei reati. Il sospetto è una ipotesi che si deve poi provare a dimostrare. Oggi ci troviamo in una situazione in cui invece chi viene accusato deve dimostrare lui stesso la propria innocenza, ma nella teoria del procedimento è vero il contrario: è l’accusatore che deve dimostrare la colpevolezza».
Nel parlare di procedimenti giudiziari affronta anche il tema della libertà. Tema che viene da lei declinato spesso, affiancandolo alla dimensione relazionale e affettiva: “Libertà sta nel tenere insieme noi due pure qua dentro. Nessuna cella mi può togliere questa libertà”, citando Impossibile.
«Quelle sono le parole di un detenuto che scrive delle lettere e, quando le scrive, la sua impressione è che quella persona sia lì, sia presente. È un po’ la stessa cosa che capita a me quando scrivo delle storie che riguardano il passato. In quel momento è come se quelle persone fossero con me, convocate dalla loro assenza. Questa è una manifestazione curiosa della scrittura, che fa apparire le cose a chi le scrive. Quindi la scrittura delle lettere – l’unica che i detenuti conoscono perché non hanno Internet – è la maniera con cui si riesce a stabilire una presenza che possa tener compagnia».
Invece della libertà in senso stretto – quella che sfiora i diritti e i desideri – che idea si è fatto?
«Mi sono fatto un’idea diversa da un elenco di diritti di cui godere. Per me la libertà è quella che si manifesta nel Libro dell’Esodo, quando quel popolo viene estratto dai ceppi della servitù d’Egitto e attraversa il Mar Rosso che si chiude alle loro spalle. E si apre davanti il deserto. La libertà è un deserto da dovere inventare nel percorso giorno per giorno, con la possibilità di perdersi. In quella storia molto spesso i liberati, nello sgomento della vastità che hanno davanti e delle difficoltà degli accampamenti continui, sognano di tornare ad uno stadio di servitù assistita, di servitù garantita».
E lo stadio di servitù garantita è un rischio che sta sempre dietro l’angolo…
«È il rischio che corrono tutte le democrazie. Le democrazie sono rischiose, continuamente in bilico con il desiderio di tornare a uno stadio di soppressione dei diritti, ma di garanzie».
Si potrebbe dire anche del nostro Stato democratico, secondo lei?
«Noi oggi stiamo vivendo una situazione di strepitosa novità. Non è mai successo che un governo e una nazione si siano improvvisamente messi a proteggersi l’uno con l’altro, a inventare una formula di cautela reciproca in cui non governano le cifre, i capitali, i prodotti interni lordi ma le esigenze del sistema sanitario. Governano gli epidemiologi: questo è un governo che prende istruzioni e direzioni direttamente dalla Sanità. È una situazione straordinaria e non è di passaggio. Stiamo inaugurando un’epoca nuova. Non è un intervallo che presto potremo sorpassare per tornare a come era prima».
In questa epoca nuova che si inaugura chi è il “Chisciotte invincibile”, figura letteraria cui ha già reso omaggio in passato?
«Chisciotte è ogni persona – ma anche ogni comunità – che si batte per la propria dignità, per la propria salute, per la propria libertà. Lo fa contro sempre poteri più grandi, in inferiorità numerica, ma con la forza della ragione e della solidarietà. Chisciotte è uno sconsiderato, perché sa continuamente che sarà battuto. Lo sa sempre, lo sa da prima, e però non smette di provarci di nuovo. Per questo l’ho chiamato invincibile, perché invincibile non è quello che vince sempre, ma colui che, continuamente sconfitto, non la smette di rimettersi in piedi per battersi di nuovo».
Lei è molto legato alla montagna, come luogo da esplorare. E la montagna ha le sue leggi. Cosa continua ad insegnare all’uomo?
«Insegna che l’uomo è in inferiorità numerica. In montagna noi siamo minuscoli e l’ambiente intorno è gigantesco, schiacciante. È un ambiente che non ha nessuna simpatia nei nostri confronti. Non siamo invitati, non abbiamo neanche un lasciapassare. Siamo degli intrusi dentro questa immensità. È dunque una giusta lezione di proporzioni, noi siamo questo nei confronti del pianeta. Non siamo la maggioranza che lo schiaccia e lo opprime. Noi siamo delle minuscole creature di passaggio su questa superficie».
Però l’uomo ha in sé la funzione del linguaggio. Quanto crede che si sia scarnificato o depotenziato con l’introduzione del mezzo tecnologico?
«Penso che il mezzo tecnologico sia un dialetto, cioè abbrevia. I dialetti sono più brevi della lingua. Io sono napoletano e so che il mio dialetto è molto più conciso dell’italiano. Dunque Internet è un dialetto nuovo che si è diffuso e nulla toglie al vocabolario, che resta un enorme dono a nostra disposizione. Ne sfruttiamo una piccolissima parte ma la sa ricchezza è gigantesca. Io sono uno che si considera residente nel vocabolario italiano».
E qual è la parola dialettale a cui è più affezionato?
«Mi piace una parola dialettale che è la più breve al mondo. In napoletano il verbo “andare” si dice ” i’ “, “ire” latino ma troncato. Me ne devo andare si dice ” Me n’aggia i’ “. E ho scoperto che in ertano – il dialetto del mio amico Mauro Corona – con il solo suono ” e ” si indica la parola ” ape “.
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