La nuova terra: intervista a Sebastiano Mauri

di - 9 Novembre 2021

Il nuovo romanzo di Sebastiano Mauri è un libro che lascia traccia.
Una scoperta, una separazione, un lutto. Un viaggio, più viaggi, nell’Amazzonia profonda e la traccia che questi viaggi lasciano, una visione, una libertà e una via nuove, di quelle che attraversano il dolore e portano nuova consapevolezza. E un modo nuovo di vivere il presente. La nuova terra non è il primo romanzo di questo individuo sfaccettato e poliedrico che è anche passato dalla regia ed è artista. Lo intervisto qui perché quello che mi interessa è la relazione performativa tra vita e scrittura, tra vita e arte.

Per prima cosa, parlaci di te, chi sei?

«Una domanda dal sapore quasi esistenziale, quando me l’ha fatta Tinder, pur di non rispondere, ho buttato l’app nel cestino. Quali pezzi di sé si sceglie di includere (o omettere) nella risposta sono forse più rivelatori della risposta stessa. Si parte dalla nazionalità, le scelte professionali, l’etnia, l’orientamento affettivo, le preferenze politiche o i gusti musicali? D’istinto, poi, ho sempre rifuggito le definizioni, che intrappolano le nostre attività in etichette identitarie, con un effetto spesso limitante, e che, inoltre, invita inconsciamente al pregiudizio. Dato il contesto, proverò a definire chi sono partendo da ciò che ho fatto nelle quasi tre decadi di produzione che ho alle spalle. Ho lavorato come artista visivo, mostrando quadri, sculture e disegni, ma anche video, fotografie e installazioni. Ho diretto un lungometraggio, Favola, tratto dall’omonima pièce teatrale. E ho scritto tre libri, di cui l’ultimo, La Nuova Terra, edito da Guanda, mi sta portando, in questi mesi, in giro per l’Italia a presentarlo. La comunicazione efficace, il marketing comme il faut, ci invita a farci riconoscere attraverso un logo, o trademark specifico, che aiuti gli altri a distinguerci nell’oceano di offerte che è oggi alla portata di ciascuno di noi. Passare attraverso diversi medium, stili, temi o sfere professionali non è esattamente raccomandabile. Eppure, per alcuni – e io temo ormai di dover accettare di essere una di questa persone – non sembra esserci altra scelta che seguire il proprio istinto, o curiosità, ed essere i primi a sorprenderci nello scoprire quale sarà la nostra prossima avventura. Cosa farò da grande, come mi ha chiesto giusto ieri il mio editore, lo scoprirò a cose fatte probabilmente. Quando mi sento perso, quando la non appartenenza mi trascina nello sconforto, penso a dei giganti come Pier Paolo Pasolini o Hildegard Von Bingen e mi faccio forza».

Sebastiano Mauri, La nuova terra

Se definiamo la performance come opera che mostra il suo processo, che esiste mentre è, qual’ è il rapporto tra la vita dello scrittore e ciò che scrive? Quanto della tua vita e del suo processo entra negli scritti? Come?

«Sia che si tratti di quadri, film o romanzi, quando lavoro io non posso che partire dalla mia vita, da ciò che più mi preme, dai dubbi che mi attanagliano, dalle mie frustrazioni più profonde o dai miei desideri più reconditi. Se non c’è una risonanza con il mio vissuto, non nasce la spinta a creare. Quando dipingevo ritratti scevri di qualsivoglia contesto (taglio di capelli, postura, vestiti, sfondo) che permettesse di collocarli in un periodo, luogo o classe sociale determinata, invitavo chi li osservava a relazionarsi a questi individui senza l’aiuto dei propri parametri ideologici. Da umano a umano. Era un uomo che sognava di non essere giudicato lui stesso quello che li dipingeva. Nello scrivere libri, grazie all’uso della parola, che ci permette di scavare nei nostri pensieri con molta precisione, ho sempre compiuto un percorso di autoanalisi, di psicoterapia intensiva, direi. Raccontare le storie dei miei personaggi/alter ego mi ha permesso, attraverso la condivisione, di sanare delle ferite che avrei altrimenti rischiato di portarmi dietro. E quando la condivisione è sincera, libera da confortanti censure, con un po’ di fortuna, si può sperare di aiutare anche una lettrice o due a guardarsi dentro per trovare il modo di sanare qualcuna delle proprie ferite. Scrivo sempre in prima persona, ma mai utilizzando il mio nome o di chi mi sta intorno, perché rischierei di usare le stesse maschere che inevitabilmente accompagnano la mia vita (e quelle di tutti, purtroppo). Ricorrere a un personaggio, utilizzare la finzione, mi permette, paradossalmente, di essere più sincero, di andare ancora più a fondo della verità. Diffido sempre delle autobiografie, dichiaratamente fattuali e proprio per questo, spesso, figlie delle menzogne cui più siamo affezionati. Il velo protettivo del romanzo, invece, riesce a squarciare tutto ciò e, nei migliori dei casi, a spogliare l’autore lasciandolo nudo come mamma l’ha fatto. Una nudità redentiva, rinvigorente e a volte addirittura salvifica».

Sei partito dalla pittura, anzi, hai studiato regia, poi sei diventato artista visivo, poi hai cominciato a scrivere, il tuo primo romanzo è Goditi il problema, se non erro. Cosa significa transitare tra le arti? C’è una tua modalità preferita? È una questione di evoluzione? Cosa fa sì che fissi il processo in un modo/risultato, piuttosto che in un altro.

«Non credo di averlo capito fino in fondo neanche io. È un meccanismo che vado scoprendo man mano che la mia vita avanza. Dipende da tanti fattori, direi. Da ciò che voglio esprimere, da come mi sono espresso negli ultimi tempi, ma anche da fattori esterni quali la casualità (in cosa sei inciampato ultimamente?) e la risposta del pubblico. L’arte, la letteratura, sono atti comunicativi, il cerchio si chiude davvero una volta che il messaggio, l’immagine, il suono, le parole arrivano ai loro destinatari. Che effetto hanno avuto? Che cosa hanno prodotto in me le reazioni del pubblico? Mi sento appagato o frustrato? Davanti alla frustrazione mi viene voglia di alzare l’asticella o di mandare tutto alla malora? Spesso, il più grande nemico dell’esplorazione artistica è il successo. Lo si può vedere nell’arco produttivo di numerosi artisti: cercano, sperimentano, lavorano per prove ed errori, escono con nonchalance dal seminato fino al momento in cui vengono baciati dalla celebrità e poi è come se il tempo si fermasse. Non fanno che produrre variazioni sul tema, quello stesso tema che ha dato loro soddisfazioni (certo, anche economiche) e che li ha portati alla notorietà. Cambiare significa rischiare di mettere tutto ciò in discussione, di ritrovarsi ad affrontare la tanto temuta indifferenza da parte del sistema che si conosce più che bene. Forse la libertà espressiva che mi ha contraddistinto fino ad ora è figlia della mancanza di successo. Una benedizione ben camuffata!».

Cosa cambia che ti porta a creare la prossima opera? Quando sai cosa sarà?

«Una volta chiuso un ciclo, un progetto, un’ossessione, mi trovo spesso a sospettare di non avere più niente da dire, e se anche lo avessi, di non sapere come dirlo. L’horror vacui credo sia una tappa obbligatoria nella vita di ogni persona creativa. Fino ad ora, per fortuna, in un modo o nell’altro, ne sono sempre uscito. L’importante è non credere alla malefica vocina interiore che ci suggerisce che il meglio sia ormai alle nostre spalle, e mantenere viva la fiducia che invece qualcosa di bello, nuovo e inaspettato arriverà presto a sorprenderci. E se non succede, c’è sempre la possibilità di diventare giardinieri, un’attività che su di me ha sempre esercitato un grande fascino».

Sebastiano Mauri, Alice, oil on canvas, 80x80cm, 2003

C’è un fil rouge che lega i tuoi lavori?

«Il fil rouge del mio lavoro direi che è l’esplorazione dell’identità. Come nasce, come la viviamo, come la subiamo? Come influenza il nostro rapporto con gli altri? Come possiamo imparare a liberarcene, almeno parzialmente, per osare trascendere i ruoli assegnati a noi e agli altri, sorprendendoci attraverso una visione nuova e, per quanto possibile, scevra di pregiudizi verso noi stessi e il mondo che ci circonda?».

E tornando a La nuova Terra, qual è il succo di questo ultimo lavoro?

«La nuova Terra nasce da un viaggio nel cuore dell’Amazzonia che mi portò in un centro di cerimonie tradizionali in cui si curano le persone attraverso l’uso dell’ayahuasca, un decotto psicotropo il cui uso si perde nella notte dei tempi. Leone Amoedo, il protagonista del romanzo, incappa in quest’esperienza quasi per caso e alquanto impreparato, ma aprirà per lui delle porte che non riuscirà più a richiudere. Metterà tutto in discussione, a partire dalla sua identità, frutto di tanti compromessi, passando dalla sua relazione ormai arrivata a uno stallo, al suo lavoro che procede per inerzia, fino ad arrivare alla società tutta, che avanza cieca e famelica verso l’autodistruzione e l’ecocidio. Il contatto con la cultura Shipibo, i dialoghi interni cui le cerimonie di ayahuasca famosamente invitano, gli permetteranno di scorgere una via alternativa di relazionarsi a se stesso e al mondo, allineando ciò che è, con ciò che pensa, dice e, in ultima istanza, fa. Un lavoro di coerenza quindi, con la propria natura, ma anche un modo nuovo di relazionarsi con la Natura, tardivo, ma profondamente necessario. Il percorso di Leone è un invito per i lettori tutti a guardarsi dentro, appendere i propri panni sporchi fuori dalla finestra e ritrovare un equilibrio che permetta loro di scovare un cammino di speranza in questo momento in cui la vecchia Terra cambia pelle».

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