Queste conversazioni sono un piccolo tributo a critici e curatori italiani che si occupano di arte contemporanea fuori dai confini nazionali. Ho iniziato, con una distinzione sessista e politicamente scorretta, ad occuparmi delle donne ma non c’è un motivo preciso per questa scelta, se non il fatto che alle persone intervistate fino ad ora sono legato da rapporti di amicizia e stima professionale. Quindi dopo Chiara Parisi, Marina Sorbello e Grazia Quaroni, tocca a te, Alessandra, raccontarci la tua storia.
Come si può rendere interessante agli altri ciò che è venuto a noia a sé stessi? Forse quello che ancora può sorprendere della propria biografia sono gli eventi determinati dal caso, dal ruolo che questo gioca nell’offrire opportunità e virate di bordo impreviste che influenzano il corso di un’esistenza.
Caso e occasione hanno la stessa provenienza etimologica, iniziamo dalla prima occasione che ti portato a scegliere l’arte contemporanea.
Al liceo ho avuto ottimi insegnanti di materie umanistiche. Ma se avessi compreso allora quanta passione può celarsi dietro un’idea astratta avrei probabilmente scelto di occuparmi di scienza. Invece questo è avvenuto tardi, e inaspettatamente attraverso l’arte, quando mi sono resa conto che la vera chiave di lettura di un’opera è nell’idea che l’ha mossa. Ed è l’idea, non la tecnica, l’interruttore che accende la passione e determina le forme. Come in scienza il movente non è la formula ma la visione, in arte l’oggetto è solo un mezzo che comunica l’idea. Per questo trovo obsoleto distinguere fra le tecniche o prediligerne una in particolare. E per questo trovo importante che l’opera sia essenziale (che non significa minimalista). Tutto ciò che è in più non solo è inutile, ma distrae, leva intensità. Credo che in arte come in scienza si prospettino tante vie per raggiungere uno scopo ma alla fine, viene privilegiata la più semplice e concisa; un’estetica che decisamente accomuna i due campi, cioè, ottenere il massimo con il minimo dispendio di mezzi.
La figura di tuo padre (Giovanni Maria Pace è fondatore del giornalismo scientifico in Italia) non ha influito sulle tue scelte?
Ha profondamente influito sul mio modo di ragionare, mai sulle scelte. Ho avuto un’educazione estremamente liberale, responsabilizzante: padre razionalista e madre scandinava… Trasgressioni e pentimenti non rientravano nella cultura di casa, dove regnava la fede nel libero arbitrio e quindi l’idea che bisogna imparare a usare bene il cervello. È meraviglioso abbandonarsi ai sentimenti finché sono positivi, ma nelle situazioni difficili il raziocinio ci viene in aiuto.
Dopo la scuola familiare e quella superiore?
Un impulso mi ha sempre portato a pensare che bisogna allargare i propri orizzonti. Se il primo passo è stato quello di diplomarmi a pieni voti per ottenere una borsa di studio per andare a studiare all’estero il secondo, del tutto casuale, è stato sbucare dalla metropolitana di Covent Garden un magnifico e raro pomeriggio dell’agosto londinese e istantaneamente pensare: resto qui!
E cosa hai fatto?
Prendo la guida telefonica e comincio a sfogliarla cercando indirizzi di università. Non avendo informazioni in merito, il mio primo criterio era scegliere la più vicina, la London University College. L’unico dipartimento aperto a fine estate era quello di Storia dell’Arte. Nonostante la sventatezza, riesco a essere sufficientemente convincente per ottenere di fare i colloqui d’ammissione. Prendono sedici studenti su duecento candidati, ma mi accettano offrendomi una borsa di studio. UCL si rivela essere una delle migliori università del paese: per la mia specializzazione in arte contemporanea non avrei potuto scegliere meglio. Neanche durante il master nel più famoso e prestigioso Courtauld Institute avrei ritrovato quell’effervescenza.
Perchè lasciare un paese d’arte proprio per studiare storia dell’arte?
Durante i miei studi me lo chiedevano tutti. Oggi, che vivo a Berlino e mi occupo d’arte contemporanea, nessuno più mi fa questa domanda, purtroppo, perchè la risposta è evidente al cospetto dell’immagine rarefatta che la cultura contemporanea italiana si è fatta all’estero.
Un’altra occasione importante?
Ancora una coincidenza, l’incontro casuale con Achille Bonito Oliva, durato quindici minuti di orologio, che mi porta a frequentare il corso per curatori del Magasin di Grenoble e a fare uno stage di tre mesi alla Biennale di Venezia del 1993 come assistente del curatore. Quest’ultima esperienza ha rappresentato il punto di non ritorno, perchè dopo aver seguito la genesi e l’epifania di grandi progetti di grandissimi artisti si viene presi da una forma di dipendenza. Il tracciato di un’opera è spesso avventuroso e una volta condivisa questa avventura è difficile rinunciarvi perchè il processo di esplorazione e di crescita che l’accompagna diventa un sistema di vita.
Curatrice freelance. È una scelta?
Da piccola avevo un incubo ricorrente: procedevo rapida in un tunnel grigio e stretto sempre uguale. Da grande non me ne sono mai potuta scordare e ho deliberatamente scelto una professione lontana da ogni routine, che presentasse svolte e sorprese continue.
A cosa è dovuto il successo di Avvistamenti (1999-2002), uno dei cicli di mostre più significativi di questi anni.
Alla GAM di Torino ho avuto modo di lavorare nelle migliori condizioni, assistita da una piccola squadra motivata e capace e da una direzione illuminata che hanno permesso agli artisti invitati di dare il meglio di loro stessi. Le dieci mostre e cataloghi di Avvistamenti hanno avuto un’ottima risonanza anche all’estero sia per la diffusione fatta dagli artisti stessi, che è sempre la migliore forma di pubblicità, sia per la copertura stampa con testate prestigiose come l’Economist. Il concetto di mostre personali che interagiscono disegnando un programma nel tempo ha funzionato. Come anche lo spazio di circa 500 metri quadri che ha dato agli artisti la possibilità di misurarsi con un ambiente di scala superiore rispetto allo studio e alla galleria, ma sufficientemente condensato per realizzare progetti coesivi di mostre concepite apposta per l’occasione. Dico che hanno funzionato perchè è stato proprio il pubblico, una volta avviata la serie, a seguire la dinamica di Avvistamenti e a individuare le similitudini e i contrasti di estetiche e di approccio.
Poi c’è stato il libro su John Bock…
Pubblicato da Walther König nel 2004 come progetto collaterale della mostra da me curata ad Arken (museo d’arte moderna di Copenhagen) e contestualmente un progetto che mi ha offerto un’esperienza professionale insolita, l’incarico della casa editrice Axel Springer a Berlino di utilizzare per l’arte 2000 metri quadri di spazi visibili dalla strada in cui ho deciso di ospitare atelier di artisti, tra cui molti italiani.
Altre esperienze. Nel 2002 la mostra di Nam June Paik al Museo di Vinci e nel 2004 Dolomiten-Fenster alla Haus der Kulturen der Welt di Berlino.
Dolomiten-Fenster è stata una bella esperienza sia dal punto di vista umano per la collegialità stabilitasi nel gruppo, sia per quello artistico che ha riconfermato quante potenzialità ci sono nelle opere dei giovani quando si dà loro lo spazio e le risorse riservate alle star dell’arte. Purtroppo, esclusa la ripartizione Cultura della Provincia di Bolzano che ha assunto un ruolo cosciente e dinamico nel sostenere all’estero i giovani artisti della regione, in Italia nessun altro organismo pubblico si prende questa responsabilità.
E adesso?
Vorrei avere la possibilità di serrare il ritmo delle mostre che curo, cosa difficile se ogni volta devi cercare fondi e spazi. Mi dispiace vedere tante risorse sprecate e non poter agire; artisti residenti a Berlino che non espongono mai in città e non entrano nelle collezioni pubbliche locali; artisti italiani che non circolano pur meritandoselo; artisti fuori moda o non più giovani ma pur sempre interessanti che vengono esclusi. Più che di giustizia è questione di pluralità di prospettive che abbiamo il dovere di offrire. Il mondo dell’arte si fregia di essere trasgressivo e anticipatore, ma a furia di sentirsi superiori abbiamo perso il senso critico e ci ritroviamo chiusi in un sistema che, come tutti i sistemi, risponde alle pressioni di moda e mercato, età anagrafica e gerarchie. Non siamo dunque meglio degli altri. I suffissi “trans” e “inter” sono diventate degli alibi, delle forme di correttezza politica che spesso nascondono un modo per dimostrare la propria superiorità intellettuale senza esporsi.
Che farai?
Che farò…? Magari aprirò io uno spazio…
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marcello smarrelli
*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 29 – marzo/aprile 2006
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