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La periferia dell’anima
Personaggi
Da diversi anni Raffaella Mariniello fotografa città e luoghi simbolici depauperati proprio di quella carica evocativa. Skira ha da poco mandato in libreria un bel volume che presenta la sua ultima ricerca focalizzata sui cosiddetti "non luoghi" e non solo. Ulteriormente degradati, dalla presenza di imbarazzanti segni della civiltà dei consumi. Ne esce fuori un paesaggio grottesco, che può apparire anche ironico. Ma soprattutto drammatico
L’incontro con Raffaella Mariniello prende spunto dal suo ultimo libro, Souvenirs d’Italie, pubblicato da Skira. Ma si allarga alla sua esperienza del paesaggio, al rapporto con il maestro della fotografia di paesaggio, Luigi Ghirri, al viaggio e alla percezione del tempo. Ma anche all’idea di città e all’idea che lei si fatta di chi le amministra. Eccone il denso resoconto.
Souvenirs d’Italie: un titolo audace nello iato che produce tra memorie di un’Italia culla della cultura da un lato e, dall’altro, fotografie in cui quei luoghi appaiono spauracchi alle spalle di ipnotici status symbol della massificazione. Ma dopo decenni di globalizzazione, non sono forse proprio questi simboli il simulacro della nuova cultura?
«Quando ho iniziato i Souvenirs, pensavo agli alberghi che si rifanno alla Roma antica e al Rinascimento fiorentino, ai villaggi costruiti ex novo tipo “Florentia Village”, un nuovo quartiere che sorge nella periferia di Pechino. Ho pensato che era inutile andare fin là, bastava fotografare l’Italia vera per rendere il senso del falso. Il vero è diventato marchio, esibizione, rituale collettivo».
Per comprendere quella che definisci “nuova cultura”, bisogna dimenticare il senso antico del viaggio. Davanti ai monumenti che hanno fatto storia, c’è il presente. Oggi il senso della cultura classica lascia il posto al consumo e all’omologazione. È così?
«Quello che fotografo in queste piazze sono oggetti. Che diventano presenze inquietanti e chiaramente ci dicono che non c’è più spazio per la bellezza, come non c’è più spazio per distinguerci gli uni dagli altri. È il meccanismo di una comunità, di un mondo. E mi domando come, attraverso questo processo, l’individuo possa evolvere».
La tua ricerca è una provocazione, se con questo termine s’intende suscitare un’emozione in chi guarda o, meglio, un fastidio.
«La sfida comincia dal titolo: “Souvenirs” è tra le pochissime parole globalizzate non inglesi. Ma non cambia poi tanto; inglese o francese, qui si tratta dell’uso comune di termini presi a prestito da altre lingue, di cui non riusciamo più a fare a meno e di cui abbiamo smarrito il senso originario. L’utilizzo globale delle parole mi impressiona, significa che ci uniformiamo anche nell’interagire col mondo, peggioriamo i nostri rapporti e il nostro senso estetico. In definitiva temo che questo processo limiti la libertà. È un dolore interiore quello di cui parlo».
Con il Viaggio in Italia, nel 1984 Ghirri e compagni s’incamminarono alla ricerca di una Italia che rifuggisse gli stereotipi da cartolina del Gran Tour, mentre tu, cogliendo l’inquinamento di quei luoghi, sembri quasi averne nostalgia. Alla luce di questi due estremi, come pensi sia cambiata la fotografia e l’immagine italiana?
«Non rimpiango l’Italia com’era, non è nostalgia quella che provo, piuttosto penso che l’accessibilità di tutto a tutti grazie a una supposta democrazia, sia la causa di un effetto opposto, ossia l’incapacità di comprendere.
Il Viaggio in Italia di Luigi Ghirri ci racconta del rapporto tra questo sublime artista e il proprio territorio, ci dice della sua interiorità, della relazione con i posti della sua vita, e in questo c’è un approccio molto diverso dal mio. A parte il paragone, che mi lusinga, Souvenirs d’Italie racconta al contrario della perdita d’intimità con i luoghi. L’effetto dell’omologazione, sembra affliggere a volte anche gli artisti, i fotografi che si sono messi tutti freneticamente a viaggiare, producendo lavori pressappoco uniformi. La fotografia d’autore credo sia cambiata in questo: non si cerca più di agire in modo originale; piuttosto, sia per abbordare un mercato o per semplice mancanza d’idee, ci si rifà a temi e stili di artisti che hanno fatto scuola. È un fenomeno che non accade solo in fotografia, ma anche nel cinema, nell’arte contemporanea. È importante al contrario, mantenere una singolarità, anche a scapito di un’esclusione dai circuiti di visibilità più allargata del proprio lavoro».
Quanto questo lavoro è frutto di una meditazione sulla fotografia di paesaggio e quanto, invece, deriva da una percezione da viaggiatrice?
«È più giusto pensare alla meditazione. Direi una meditazione sul paesaggio, un viaggio nell’interiorità, uno scenario che mi affascina e a volte mi rapisce, come se stessi in uno stato ipnotico. Quando fotografo percepisco lo spazio in fusione con il mio corpo, ed è indubbiamente una forma di spiritualità che mi fa da guida. Ho la necessità di passare più volte e in diversi orari nello stesso luogo per capire qual è il momento migliore per la ripresa e che tipo di luce vorrei avere, solo così riesco a intendere l’essenza di quello che guardo. Porto spesso con me degli attrezzi, per esempio cesoie, se c’è da spuntare qualche ramo, giraviti e pinze, se mi dà fastidio un filo di ferro o una rete, scope e palette se c’è troppa sporcizia… Ecco, viaggio spesso così, e cerco quello che ho in testa, in una combinazione di immaginazione e di realtà. A volte penso non mi basti più fotografare, mi piacerebbe dar vita e rendere materiali quegli stessi oggetti e scene che ho a lungo impresso in pellicola. Nei Souvenirs, ma anche nel lavoro precedente, le cose che fotografo escono dal contesto ed assumono un altro senso. In effetti è un continuo ready made quello che si materializza, ed è un processo che parte dallo sguardo. D’altro canto penso sia l’atto stesso del fotografare che toglie dal contesto le cose, il processo del ready made è già insito nel momento in cui riprendiamo una scena. Trasporre la realtà su un supporto visivo è, rubando la parola ad Achille Bonito Oliva, uno ‘strappo’».
Da Napoli all’Italia: quanto è cambiata la tua fotografia in questo sconfinamento di orizzonti?
«È vero che Napoli per me è sempre stata fonte di grande ispirazione, ma sono stata anche altrove: Beirut, Istanbul, Atene, Tunisi, e altri porti del Mediterraneo. Sono città in cui tutto è precario: i luoghi che mi hanno incantato più a lungo sono quelli dove manca una pianificazione urbana razionale e funzionale. Non escludo di tornare a cercare ancora queste atmosfere: in fondo sono queste le città più autentiche: da un certo punto di vista, le rivoluzioni, i conflitti sociali, una certa instabilità politica, rispecchiano un sentire umano più concreto. Lo spostamento della mia ricerca nei centri storici italiani, invece, indica simbolicamente un passaggio dalle periferie delle città alle periferie dell’animo umano. L’invasione di un territorio sentito come altro da sé, i tagli economici al patrimonio artistico, la deriva di un’amministrazione pubblica incapace di decisione, rappresentano la periferia dell’anima. L’orizzonte non sembra essere poi tanto diverso».
Nei tuoi lavori c’è sempre stata un’attenzione al tempo, in questo progetto reso evidente dal primo piano fluido e mobile in contrapposizione allo sfondo, ieratico e sempiterno: cos’è il tempo per te e come la fotografia conserva il tempo?
«Nella mia fotografia il tempo appare liquido, somiglia a un fiume che scorre, e nello scorrere si porta dietro tutta la materia delle cose, facendo perderne il profilo. È il frutto della sperimentazione pura, cominciata agli inizi degli anni Novanta, quando provavo a Bagnoli la fotografia notturna. È curioso come un espediente tecnico possa elevarsi a riflessione sul tempo, ma sembra essere proprio così: il risultato su carta è un tempo che sfugge.
Per questo non penso alla fotografia come stato conservativo. Quando osservo un mio vecchio lavoro, lo guardo a volte chiedendomi se sono riuscita a produrre delle immagini senza tempo. Non penso alla testimonianza di un’epoca, lo sforzo è piuttosto quello di togliere l’età alle immagini».
La scelta di un catalogo per questo lavoro va interpretata come punto d’arrivo di un percorso, o come preludio di un progetto che ti porterà fuori dai confini nazionali?
«Il catalogo non è un arrivo né una partenza, piuttosto una pietra miliare che segna un percorso mai finito. Continuerò a interessarmi all’uomo e al contesto in cui abita e ancora alla nostra area geografica, ma facendo in modo che le immagini non abbiano limiti. Non c’è immagine più potente di quella senza tempo e senza territorio, ma in grado di rappresentare tutto il pianeta. Per questo sento la necessità di restare nel particolare, credo sia il microcosmo a rendere l’idea della universalità».