Secondo Gillo Dorfles, Miela Reina è stata «La sola artista dell’area giuliana ad aver creato, nella breve stagione che va dagli anni Sessanta ai Settanta, un’opera non solo degna di essere ricordata e studiata, ma degna di essere considerata come una solitaria e inimitabile avventura della fantasia». Il critico pone l’accento sul lato fiabesco e giocoso di Miela, quell’approccio “leggero” che nutre la sua poetica e anima i tanti personaggi entrati a far parte del suo personalissimo teatro immaginario.
Dopo aver conseguito la maturità classica Miela Reina (Trieste, 31 agosto 1935 – Udine, 15 gennaio 1972) frequenta dal 1956 al 1959 la scuola di pittura all’Accademia di Belle Arti di Venezia. Porta sempre con sé un taccuino e una penna stilografica, pronta a ritrarre scherzosamente gli amici o a registrare sulla carta le numerose suggestioni che una città come Venezia offre a chi la sa ben guardare.
Nei disegni e nelle pitture realizzate in questi anni, si notano già certe intuizioni che saranno al centro della sua ricerca artistica futura: l’accostamento di masse cromatiche via via sempre più pure e la scomposizione volumetrica dei soggetti. Oltre alla curiosità nei confronti delle esperienze picassiane si può individuare nei suoi lavori una sintonia con le suggestioni fiabesche di Marc Chagall.
Appena terminati gli studi accademici, Miela inizia a lavorare nella scuola media annessa all’Istituto Statale d’Arte di Trieste. Durante le lezioni di educazione artistica, i ragazzi entrano in contatto con materiali e tecniche diversi mentre la loro insegnante, attraverso giochi e lavori di gruppo, li incoraggia a esprimere attraverso il colore la propria visione del mondo. La creazione artistica diviene, quindi, un prezioso strumento di crescita e conoscenza reciproca: si tratta di un approccio pedagogico apparentemente “leggero” ma che si dimostra, in realtà, denso di spunti e profondamente innovativo per l’epoca.
Altrettanto stimolante sarà progettare, fra il 1962 e il 1964, le decorazioni ambientali per alcune grandi navi. L’allestimento delle sale per bambini ricavate all’interno del transatlantico Raffaello sarà il lavoro più importante e vedrà impegnati Miela e gli amici Enzo Cogno, Luciano Semerani e Gigetta Tamaro, legati a lei dai tempi della scuola.
Per l’artista questo confronto con la dimensione narrativa infantile resta un precedente molto importante le cui suggestioni contribuiranno allo sviluppo del suo linguaggio artistico più maturo, specie per quanto riguarda il fumetto e le storie illustrate per bambini.
Altra tappa importante che caratterizza questo dinamico percorso è, senza alcun dubbio, l’apertura della Galleria La Cavana: dentro il piccolo spazio espositivo inaugurato nel 1961 assieme all’amico Enzo Cogno Miela riesce ad organizzare, nell’arco di diciannove mesi, ben trentadue mostre d’arte contemporanea. La Cavana è idealmente un ponte culturale fra Trieste e le ultime novità offerte dall’avanguardia italiana oltre che un luogo di confronto e aggiornamento per artisti triestini e non.
All’interno di questo stimolante contesto culturale Miela mette in atto la sua evoluzione stilistica senza abbandonare completamente il dato figurativo ed esplorando, piuttosto, consistenze materiche differenti e ponendo al centro della sua poetica il dato narrativo.
Nel 1967 il compositore Carlo de Incontrera propone a Miela di far confluire le sue nuove sperimentazioni sul palcoscenico costruendo una performance che racchiuda parole, musica e azione scenica. Proprio in quel periodo l’artista stava compiendo il distacco da un linguaggio pittorico di natura espressionista per assecondare il suo bisogno di “invadere” lo spazio plasticamente. A tale esigenza si accompagnavano una progressiva semplificazione del segno e l’utilizzo di colori puri distribuiti con omogeneità entro superfici nitidamente campite. I testi, in italiano e inglese, che iniziano a comparire all’interno delle nuove opere, costituiscono delle guide alla lettura del soggetto ma, allo stesso modo, degli elementi fuorvianti e provocatori. Il loro utilizzo denota l’attenzione dell’artista nei confronti della Pop Art, che già a partire dalla Biennale del 1964 aveva raggiunto con le sue suggestioni le sponde europee dell’Atlantico.
Il nuovo ductus grafico porterà Miela a percorrere anche la strada del fumetto, una dimensione in cui la “pulizia” del disegno si sposa alla perfezione con la sua genuina passione per il racconto. Fra i soggetti ricorrenti possiamo individuare: il cuore-Braetzel; il cuore normale; le lettere; il lampo; la freccia; gli occhiali; la forbice; il paracadutista; la fiamma fluorescente; la donna con messaggio; le nuvole.
Si tratta di un particolare e personale “alfabeto” che Miela disegna e poi realizza in cartone colorato e/o gommapiuma. Queste componenti, più o meno strutturate dal punto di vista semantico, costituiscono le tessere di un puzzle che trova una sua coerente unità sia nelle tavole a fumetti che sul palcoscenico attraverso l’animazione.
Il sodalizio fra Miela e Carlo ha inizio quando quest’ultimo propone all’artista di realizzare insieme la performance di Liebeslied (1968), in cui la sua musica e le parole di Emilio Isgrò avrebbero animato le scenografie mobili di Miela creando di fronte allo spettatore un’esperienza di “teatro totale”.
Questa collaborazione non nasce dal nulla ma, in realtà, va a rinsaldare un rapporto d’amicizia e stima reciproca che era maturato anni prima, all’interno di un contesto culturale estremamente stimolante quale era Arte Viva. L’obbiettivo dell’associazione è quello di stupire, travolgere, a volte anche infastidire il pubblico. L’opera d’arte deve coinvolgere lo spettatore e suscitare in lui le emozioni/reazioni più varie. Il grande merito che va riconosciuto a questo gruppo di giovani artisti è quello di aver aperto le porte di Trieste alle sperimentazioni che venivano dall’esterno, promuovendo intensi scambi con il panorama culturale italiano ed estero. Nel 1965, Giangiacomo Feltrinelli mette a disposizione parte degli spazi della sua libreria in Corso Italia e questo permette di intensificare l’attività espositiva e progettuale.
Accanto al lavoro che caratterizza questo percorso collettivo Miela porta avanti la sua personale ricerca stilistica abbandonando, seppur gradualmente, l’opera pittorica tradizionale – costituita da un linguaggio espressionista fatto di consistenza materica e da un segno piuttosto insistito e dinamico – per giungere alla rivalutazione della superficie: non più supporto atto a ricevere passivamente il colore ma punto di partenza per lo sviluppo di storie e personaggi cartacei che, dotati di linguette e profili netti, possono essere ritagliati e prendere vita.
La curiosità per nuovi materiali, la sperimentazione di soggetti inediti, la volontà di “uscire” dalla superficie del quadro per contaminare lo spazio circostante, le indubbie qualità di narratrice unitamente a quella particolare «scontrosa grazia» che Carlo de Incontrera ricorda ancora oggi con meraviglia sono tutti aspetti peculiari che rendono Miela Reina una figura di riferimento per il gruppo di Arte Viva, in particolare per Carlo.
Gli anni 1968-1971 sono densi di realizzazioni e la collaborazione fra Carlo e Miela raggiunge l’apice della sua sintonia. Tale intesa viene descritta alla perfezione dal Maestro: «Le cose che lei faceva avevano sempre una relazione con la mia musica e, viceversa, io non componevo senza pensare già alla resa scenica di Miela».
Tutto questo termina tragicamente nel gennaio 1972 con la prematura scomparsa dell’artista che lascia un enorme vuoto dal punto di vista affettivo e intellettuale. Gli impegni già presi vengono portati avanti ugualmente e gli eventi proseguono per alcuni anni ma lo spirito gioioso che aveva caratterizzato e nutrito l’attività di Arte Viva non c’è più. Restano le parole con cui Carlo è riuscito a restituire la magia del loro rapporto e l’unicità della poetica di Miela: «C’è qualcosa di “musicale” nel suo giocare […] contrappuntistico, nel disporre le “pedine” in continue variazioni, nel proiettare spazialmente le figure, cangiandole timbricamente. Trovo, insomma, in questo suo modo di comporre, elementi comuni con il mio, e, soprattutto nella sua grazia e leggerezza, una sorta di luce meravigliosa».
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