Poeta di fine sensibilità, insegnante di letteratura francese e curatore di importanti lavori di traduzione, Valerio Magrelli è da sempre interessato all’arte visiva. In seguito al suo intervento al workshop per la formazione di “creatori di contenuti digitali a ispirazione letteraria” per i musei d’arte contemporanea (9-13 dicembre 2019), promosso da Gianluigi Ricuperati presso il Castello di Rivoli, e vent’anni dopo la pubblicazione della poesia Arte all’interno della sua raccolta Didascalie per la lettura di un giornale (Einaudi, 1999), Valerio Magrelli ha accettato di rispondere ad alcune domande su arte e poesia e sul loro rapporto nel panorama culturale contemporaneo.
Professor Magrelli, trova in qualche modo offensivo il divario esistente tra i proventi generati dal mercato dell’arte visiva e quelli generati dalla poesia nell’ambito del mercato editoriale?
«Mah, guardi, è una questione costitutiva, perché da sempre la poesia è stata la più defilata. La poesia e l’arte figurativa (anche se adesso è de-figurativa) si trovano ai due estremi del mercato. Anzi, la poesia è proprio al di fuori del mercato letterario. Per un editore, meno un poeta pubblica e meglio è; la poesia è la terra estrema della miseria commerciale, e i poeti fanno di necessità virtù. L’arte invece è diventata finanza, e spesso ha a che fare non con competenze di livello estetico, bensì con vere e proprie operazioni di marketing, come quella compiuta da Hirst ricomprando le proprie opere e facendone così aumentare il valore. Io trovo che alcune opere di Hirst siano interessanti, ma non si può negare che la sua abilità sia anche di tipo economico, oltre che artistico».
C’è un artista con cui oggi vorrebbe collaborare?
«Le devo confidare un segreto: la mia casa è ricoperta di quadri, ne posseggo circa un centinaio. Sono frutto della collaborazione con decine di artisti di ogni genere. Ho lavorato con molti pittori che talvolta hanno anche inserito i miei versi nelle loro opere: Giosetta Fioroni, Titina Maselli, Gianni Dessì, Marco Tirelli, Nunzio Di Stefano (che ho incontrato al Castello di Rivoli), Bernardo Siciliano, Miltos Manetas, Biagio Pancino, oltre che con fotografi come Marco Delogu, Antonio Biasiucci, Gabrilele Basilico. Insomma, in linea di massima partecipo con piacere a molti progetti».
Cosa pensa dell’uso dell’aggettivo “poetico” riferito ad opere d’arte visiva o a suggestioni da esse suscitate? Le sembra un abuso?
«Questo tipo di interferenze lessicali a me non piace… a meno che non ne valga la pena! Associazioni poco lusinghiere rovinano l’attendibilità della poesia. Ad esempio, la poesia non è parlare di gabbiani e tramonti. Anzi, nel mio libro Che cos’è la poesia ho scritto che poesia è tutto ciò che esiste quando NON ci sono gabbiani e tramonti. Se riuscissimo a togliere tanto inutile ciarpame, saremmo già un passo avanti. Per tornare alla sua domanda: le racconto che quando, qualche giorno fa, ho presentato un libro del mio amico architetto Giuseppe Rebecchini, da poco scomparso, ho citato due famosi architetti avevano parlato di “poesia dell’architettura”: si tratta di Frank Lloyd Wright e di Carlo Scarpa. In quel caso dovetti ammettere che l’accostamento era giudizioso».
Alcuni pregiudizi sull’arte contemporanea sono duri a morire. Lei pensa che la poesia goda di migliore reputazione?
«È una bella lotta! Come dicevo prima, c’è tanto cascame. Io sono un appassionato di comicità. Trovo che nella comicità ci siano ironia e intelligenza. Apprezzo molto i comici italiani. Mi piacciono Fiorello, Littizzetto, Crozza… Però non capisco perché tutti i comici italiani, senza eccezione, non appena iniziano a parlare di arte, scivolano in un atteggiamento becero. Vorrei ricordargli che hanno una responsabilità: senza volerne fare degli educatori, ritengo che non debbano neppure trasformarsi in diseducatori. È anche colpa loro se l’arte e la poesia soffrono di cattiva reputazione».
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