“Oasi”, scrive Sergia Avveduti, “è un luogo di stupore e di intimità, emancipazione e rituale, tempo rimasto e tempo da reclamare. Un intervento intrusivo che determina nuove forme, il punto di partenza che si disperde seguendo logiche connesse alla mia sensibilità soggettiva. Un versante verticale, una geometria rigorosa che insiste fino a scoprire qualcosa che non si era immaginato”. Marinella Paderni ha intervistato l’artista, in occasione della mostra alla galleria AF di Bologna.
Sergia, la tua ricerca è da sempre connotata dall’esplorazione dei linguaggi specifici (il disegno, la scultura, il video, la fotografia) decontestualizzandoli e mostrando il loro potenziale significativo nella contaminazione, nell’ibridazione, nell’assemblage tra loro. Raccontaci di questa tua nuova e originale pratica di collage fotografico dalla forma circolare, stratificata, non classica.
«Utilizzo il collage come “dispositivo ottico” che potenzia la capacità della fotografia di rappresentare l’invisibile: i prelievi di immagini fotografiche tratte da riviste di paesaggio vengono ricomposti creando un nuovo paesaggio, summa di tutti i paesaggi esistenti e di quelli sedimentati nel nostro immaginario. Mi interessa evidenziare il potere delle immagini della storia, la loro fisicità cartacea e vissuta e il modo in cui travalicano il senso di effimero prodotto oggi dalle immagini digitali che, spesso, vivono solo per pochi istanti. In particolare, le immagini sono state manipolate e riassemblate in collage attraverso l’utilizzo di una geometria primitiva, fatta di tagli circolari incisi che agiscono come fossero una messa a fuoco ulteriore di brani di paesaggio o di architettura, posti al di fuori di un contesto di riferimento. I contorni astratti creano uno scheletro di forze che influenzano l’esperienza visiva inserita in un contesto di spazio tempo. Si crea una tensione psicologica tra la percezione dei diversi frammenti in gioco e le esperienze visive che l’hanno preceduta. La geometria delle singole porzioni si espande sulla capacità descrittiva, che ogni singolo frammento ha al suo interno, realizzando un dislocamento percettivo che sospinge lo sguardo del pubblico a immaginare cielo e terra, natura e architettura, visione e introspezione che si compenetrano».
Sergia Avveduti, Oasi, 2018 collage su carta, 76×56 cm
“Oasi” è un titolo fortemente evocativo, fa pensare al miraggio, alla visione improvvisa di una realtà magica, alla rarefazione del deserto interrotta dalla presenza di un luogo rigoglioso. Com’è nata l’idea di chiamare questa serie di lavori con un nome che rimanda ad echi lontani?
«Oasi è un luogo di stupore e d’intimità, emancipazione e rituale, tempo rimasto e tempo da reclamare. Il mio intervento intrusivo determina nuove forme, il punto di partenza si disperde seguendo logiche connesse alla mia sensibilità soggettiva. Oasi è un versante verticale, una geometria rigorosa che insiste fino a scoprire qualcosa che non si era immaginato: poco sotto il punto d’osservazione, un paesaggio a gradoni senza gravità racconta la nuova dinamica del mondo. Edifici in linea irrigidiscono l’Ala di Francesco Baracca. Più in basso, sulla strada verso il fondovalle, si vedono architetture scanalate dal gelo sotto cupole di meteorologie impalpabili, mentre sul margine visivo una scia di cani si lancia nel vuoto della pagina».
Durante le nostre conversazioni nel tuo studio, di fronte alle opere che stavi creando per la mostra, abbiamo parlato dell’importanza dell’arte di essere politica, di farsi portatrice di pensieri e approcci radicali, di apportare una differenza nello sguardo dello spettatore.
«Nel mio operare coesistono distruzione e costruzione di valori. Incido aree circolari su orizzonti franati di immagini sfrangiate, astratte, come alla ricerca di un’operazione visiva collettiva preconscia. Non ricerco idee preconcette e contenuti rigidi, spesso agisco anche sulla mia mancanza di ricordi. Non ho piena coscienza di quello che faccio e prendo le direzioni più diverse. Il dare ordine all’interno di un’immagine corrisponde a esaltare qualità particolari, a volte minime, su cui proiettare i miei contenuti per arrivare a vedere quello che non sapevo. A volte scelgo dettagli, in alcuni casi poveri di contenuto visivo ma decisivi per arrivare a considerare una nuova immagine. Oasi appartiene alla cultura di paesaggio come luogo “non valorizzato” in trasformazione. I lavori Monumento continuo e Le dodici città ideali di Superstudio m’interessano per la potenza visiva dell’utopia negativa, che riflette sulle possibilità e i limiti dell’architettura come strumento critico della società. Ma il mio lavoro si presenta in modo gradevole, contiene un potere di sovversione delicata. Il mio approccio alla politica è sottile, riguarda il valore della memoria che è reinvenzione dello sguardo rivolto verso l’interiorità».
Sergia Avveduti, Fiamma di fieno 2018
Il ruolo dello sguardo dello spettatore è imprescindibile per capire il senso di questo lavoro. Dove vuoi condurlo?
«Vorrei che intraprendesse un viaggio. Quando facciamo esperienza di in luogo, ricordiamo solo alcune particolarità di un contesto spaziale in relazione al vissuto personale. Sono interessata al processo di deformazione che la memoria innesca sulla qualità delle informazioni visive immagazzinate. Oasi è quasi un viaggio di formazione autobiografico che attinge agli immaginari pop, alla fotografia, alla grafica, circoscrive un’anomalia estetica, il cui principio attivo è il paesaggio raccontato come esplorazione della soggettività. Il bordo sfrangiato di alcuni frammenti, tratti da libri d’epoca, si disperde e si ricompone in palinsesti naturali e architettonici all’interno di una visione che è racconto: laghi secchi per trasportare ghiaia, pianeti con dentro il cielo di giugno nuvoloso e uniforme, orizzonti che si affacciano sulle ghiaie che colano in coni lisci dalla base di pareti a strapiombo».
La tua ricerca è colta, ricca di spunti storici e di riflessioni concettuali. Quanto è importante per te la relazione con la storia e con il nostro tempo?
«Mi interessa aver accesso alla “micro” storia dell’arte, già negli anni Trenta molti architetti fecero uso del fotomontaggio come verifica e controllo. Attraverso un “effetto realtà”, che riguarda la maquette sospesa tra disegno e dimensione visiva dello spazio. In seguito l’architettura radicale degli anni Sessanta definisce immagini visionarie, provocatorie, improbabili ma affascinanti. Il collage diviene scultura, oggetto costruito come parte di un contesto dove architettura, ambiente naturale e astrazione sono espressioni di pensiero e intensità emotive».
Guardando le tue opere – come Obelisco, Riflettore, Fuga – anche l’architettura e l’arte del costruire (e decostruire) assumono uno spazio speciale. Architettura e fotografia hanno delle affinità?
«Per molto tempo gli architetti hanno utilizzato la fotografia come semplice necessità documentativa; poi, per alcuni progettisti si è innescata la consapevolezza che la fotografia sia uno strumento linguistico in grado di aggiungere significati ulteriori all’architettura. I fotografi diventano autori, interpreti di uno spazio costruito emblematico. Con la fotografia si aggiunge all’architettura uno sguardo ragionato. Le strutture della realtà ne vengono esaltate attraverso la definizione della plasticità delle forme e la profondità di campo nel rapporto bidimensionale fra elementi in primo piano e quelli sullo sfondo. La fotografia ricopre un ruolo progettuale, non solo di testimonianza documentativa: veicola, ad esempio, le opere della Land Art ed è stata momento di elaborazione mentale connessa allo sviluppo del progetto attraverso gli schizzi eseguiti sulle foto».
Marinella Paderni