Iniziamo
dal 1942, la sua prima apparizione alla Biennale di Venezia, allora soltanto
diciassettenne…Non
credevo potesse succedere. Nel 1942 mi sono iscritta all’Accademia, ma il
quadro era precedente. Avevo da sempre dipinto, venendo da una famiglia di
pittori, scultori e architetti da generazioni. Era una Biennale di guerra e
venne istituito un concorso per i giovani. Mandai un quadro, lo scelsero. Non
potevo credere ai miei occhi…
Qualche
anno dopo conobbe Zoran Music alla sua personale a Trieste. Iniziaste a
frequentarvi, ma lui venne deportato…Quando
conobbi Music, mi sentivo molto “moderna”. In quella mostra c’erano dei lavori
illustrativi che facevano pensare a De Pisis e a quella pittura
post-impressionista che non mi andava per niente, tanto che dissi: “Che roba
vecchia, ma come mai?”. Ma quando ci siamo conosciuti ho scoperto che parlava
con cognizione dell’arte e abbiamo potuto trovare un buon terreno. Poi fu
arrestato dai tedeschi e io l’aspettai. Una volta liberato venne a cercarmi
appena poté e mi mollò per terra i suoi disegni del campo di concentramento.
Non ho più visto una cosa simile, disegni degni dei più grandi del mondo,
Leonardo compreso. Dachau è stata la sua Accademia, dove ha capito la verità
della vita, non della forma ma dell’essenza. Da allora ha cominciato a fare
cose bellissime. Gli veniva fuori quello che aveva immagazzinato fin dalla sua
infanzia. E questa non è sapienza, non è abilità: è bellezza. Una sorgente di
acqua limpida. Tutte le cose vere, emozionali sono acqua limpida.
A
questo proposito lei afferma che “bisogna disimparare per imparare a vedere
davvero”…Io ho una
facilità naturale a dipingere, ma l’abilità può essere un nemico, perché può
tagliare l’emozione. Invece, si deve sentire la vita, perché con l’emozione
tutto avviene in un attimo. Certi artisti danno tutto nei primi anni e poi, non
avendo più forti emozioni, continuano a ripetersi. E il ripetersi è sempre un
discendere. Come la pianta che cresce al sole, chi riceve l’energia
dell’universo va avanti, mentre gli altri rimangono fermi.
Risalgono
al dopoguerra anche i suoi primi quadri di seggiole. Ne ricorda l’origine?Mio padre
ci diceva spesso: “
Ciò fioj, non gavè voja de far niente, andè sue Satere a
tor un caffè”. E
così andavamo sulle Zattere a prendere un caffè. C’erano dei tavolini e delle
seggiole e io mi sono innamorata di quella Venezia lì. Non ho mai potuto fare i
suoi palazzi, perché sono nata in un’epoca diversa. E gli unici elementi
moderni che non disturbavano la bellezza di Venezia e quella dell’impatto della
luce e dei riflessi, cioè delle cose che sono l’incanto della mia vita, sono
quei fili d’argento, quelle seggioline meccaniche, semplici, che si mettono
impilate e che formano delle architetture. Non osavo farne la figura, perché la
figura taglia la luce e a me interessava la linea che distingue il vuoto
apparente dell’aria e ha in sé tutte le mutazioni, tutte le possibilità del
mondo.
Lei
partecipa nel 1978 alla Biennale con I Persecutori. È un’epoca in cui si sta
rinnovando l’interesse verso la pittura dopo un periodo dominato da altre
tendenze…Ma io
continuavo a lavorare sulle mie emozioni e non sulle mode. Anche
I
persecutori facevano
parte della mia ricerca sulla luce, ma in negativo. Continuando la forma di
espressione di questa linea che separa il pieno e il vuoto, dove il pieno
diventa vuoto e il vuoto diventa pieno. Anche nel 1995 ho avuto una sala alla
Biennale, ma non credo sia stata capita, perché ho sempre avuto il difetto di
voler esporre solo quello che faccio in un certo momento, senza mostrare il
percorso compiuto – e l’ho appena fatto anche a Palazzo Fortuny con la mostra
I
Terrestri.
Ci
sono edizioni della Biennale che ricorda con particolare piacere?No,
nessuna edizione nel complesso. Però ogni tanto ho visto delle cose stupende.
Come la sala di Giacometti, che ho conosciuto. Ma non solo alla Biennale. Ad
esempio, ricordo la mostra di Mondrian al Jeu de Paume, ne uscii sbalordita
dalla bellezza delle trasformazioni degli alberi dei suoi inizi. Molte volte mi
sono messa al lavoro grazie alla linfa, alla forza, all’energia che mi è venuta
vedendo certe opere. Dipende anche dalla forza che si ha in quel momento per
ricevere. Ma quando si vede una cosa bella di un altro è meraviglioso, altro
che invidia.