«Se mi dovessi chiedere quale lavoro ha condizionato il mio percorso ti risponderei senza dubbio il Pavimento (Tautologia) di Luciano Fabro. Quella è stata l’opera che più mi ha colpito; nel mio Specchio a carbone c’è molto Fabro, soprattutto nell’uso dei fogli di giornale e nel fatto che è nato come un tappeto, in orizzontale, solo poi ho deciso di appenderlo». L’atmosfera è paurosamente da “si faccia una domanda e si dia una risposta”. Ma Cesare Viel (Torino, 1964) è così cordiale che gli si può perdonare tutto, persino una “marzullata” lanciata tra capo e collo.
All’epoca di Specchio a carbone non era esattamente il performer engagé d’oggi, ma un ventitreenne che anneriva col carboncino un collage di fogli tratti dal quotidiano Il Manifesto, «non come atto di protesta» si affretta a precisare, ma «come omaggio al giornale, almeno a quello che era e rappresentava all’epoca»; aggiungendo poi, giusto per tirarsi fuori da ulteriori e possibili fraintendimenti, che «in quel momento cancellare non è stata una negazione, ma la volontà di fare tabula rasa, di fare i conti con qualcosa che già c’era per ripartire da zero». Paradigma di una carriera, Specchio a carbone scava ai primordi di Viel, soprattutto per una genesi che l’artista dice esser stata «fondamentalmente una performance, ero inginocchiato sul pavimento a lavorare col carboncino, facendo una polvere incredibile». Tempo non sospetto quel 1987, ma in cui già – e quasi con un pizzico d’inconsapevolezza giovanile – emergevano tutti gli elementi che a distanza di trentanni esatti danno credibilità al suo affermare che «la performance e la scrittura sono fondamentali nel mio lavoro».
Cesare Viel – Dar conto di sé. Figure, corpi e parole nell’opera di Cesare Viel – Installation view
L’incontro con Viel avviene in quel sacrario d’arte contemporanea che è la Fondazione Remotti, in occasione di “Dar conto di sé. Figure, corpi e parole nell’opera di Cesare Viel” (fino al primo luglio), curata dall’inossidabile direttrice artistica Francesca Pasini. Poco prima che si dilegui per andare al teatro sociale di Camogli a provare la performance in due atti a tema Virginia Woolf (costituita dalla lettura interpretativa di To the ligthouse, uno dei suoi classici, e Mrs Dalloway-Apparecchiare la cena, appositamente prodotta) con cui di lì a poche ore completerà un opening impegnativo. Con lui parliamo di “performativo” e “parola scritta”, concetti concreti che orbitano nello stesso sistema, s’incrociano, si sovrappongono, coabitano lo stesso spazio espressivo; impariamo a non percepirli come semplici rovesci della stessa medaglia, ma da elementi simbiotici che rendono la sua idea di performance qualcosa di molto personale. Qualcosa di sempre più intricato, perlomeno quando in quel contesto la “parola scritta” viene pretenziosamente definita «traccia del corpo che emerge nella sua imperfezione».
Davanti abbiamo quattro scatti in riga, immagini di un 1998 e di una Genova – città dove vive da anni – in cui Viel guarda Viel, sé stesso fuori da sé; niente d’inusuale per uno che pensa «portiamo un nome che non abbiamo scelto, a partire dal quale impariamo sin da piccoli a riconoscerci, ad avere coscienza di noi», e parola dopo parola conferma e confessa «la vita è una performance». Con Esterni da sé ha lavorato su superfici separate, abbinando immagini all’applicazione di frasi scritte su cartoncini colorati – in accesi blu e rosso – perché «volevo si capisse che non fanno parte dell’immagine, che sono una sovrapposizione»; ha usato lo stampatello, ma ammette «in generale preferisco il corsivo, più personale» mentre indica quell’horror vacui testuale espresso nel grande foglio di Progetto Bachmann. E, un po’ divagando e un po’ entrando a gamba tesa sul tema, confessa di aver indirettamente costituito un «lavoro sulla memoria», per una Genova che in quei quasi vent’anni è stata oggetto di modificazioni strutturali pesanti. Una Genova «più industriale e meno “leccata” di oggi» come ama definirla, ma ancora complice d’eccezione nel rendere il linguaggio del performer uno strumento di condivisione collettiva.
Cesare Viel – Dar conto di sé. Figure, corpi e parole nell’opera di Cesare Viel – Installation view
Quanto la poetica di Viel sia espressivamente colorita lo sa bene la Pasini, che ha messo insieme trent’anni d’attività in pochi pezzi tra scatti, tecniche miste e cinque performance in video; selezionando solo quelli giusti ad «offrire una documentazione sull’opera di Viel», e che funzioni anche da «introduzione per il pubblico alle due performance al Teatro sociale di Camogli», evento correlato e unico (unico da intendersi sia nel senso metaforico di “momento artisticamente valido”, sia in quello che se non eravate in platea il 20 maggio scorso ve lo siete persi senza appello) di questa Viel-experience rivierasca. Evento che ha riportato Viel a vestire i panni di Virginia Woolf, ad essere Cesare uscendo da Cesare, veicolando col proprio corpo un ambiguità dialettica che è parte integrante di quel «dialogo tra maschile e femminile dove non c’è parità di genere, ma netta distinzione» secondo la Pasini, che rimarca pure «tra i suoi riferimenti culturali ci sono molte figure femminili». La Woolf appunto, ma anche Emily Dickinson o Ingeborg Bachmann; presenze che scindono la sua pratica tra occasioni in cui essere sé e altre dove interpretare altro da sé, mettendolo in condizione di aprirsi sulla difficoltà del proprio ruolo, svelando che «un performer funziona quando si svuota, mette in discussione la propria soggettività, si estranea del tutto», ma comunque «deve sentire su di sé ciò che sta compiendo, passaggio fondamentale per poterlo comunicare al pubblico, per creare un contatto».
Cesare Viel – Dar conto di sé. Figure, corpi e parole nell’opera di Cesare Viel – Installation view
Dura vita da performer, di un uomo diviso tra azioni ordinate nel loro svolgimento e interventi dominati dal libero divenire; tra il bisogno di provare le proprie gesta (la performance a teatro ne è esempio lampante) e il confessare «m’interessa l’imprevedibilità, tutto quello che modifica le cose», riferendosi alla produzione fotografica di Esterni da sé, come all’Infinita ricomposizione messa in piedi un paio d’anni fa nella sua ultima personale alla galleria Pinksummer. Anzi non in piedi, stesa per terra, poiché altro tarlo delle Viel-cogitazioni è l’orizzontalità, quella che l’artista chiama «la non gerarchia, il non mettere le cose in fila». Effetto tangenziale in Specchio a carbone e prevalente in Solo ciò che accade del 2010, tappeto testuale che «si può calpestare, ma scalzi»; per non sciuparlo, certo, ma anche perché – prosegue Viel – «non avere le scarpe è un po’ come mettersi a nudo, come essere indifesi. È un contatto diretto che adoro». Un’opera rispettosa nel relazionarsi con l’intervento a pavimento di Gilberto Zorio, uno dei due “colleghi” con cui Viel si trova direttamente a fare i conti alla Remotti. L’altro è un certo Jonathan Monk, col suo specchio circolare appeso e libero di fluttuare; su cui interviene la Pasini raccontando «abbiamo deciso di tenerlo in permanenza, poiché muovendosi e riflettendo crea sempre dinamiche interessanti. Nel caso di Viel è come se la sua immagine si specchiasse continuamente, come se fosse sempre presente. È la ciliegina sulla torta». Basta un nanosecondo e conveniamo con lei sulla diagnosi: questo è vero “narcisismo da performer”.
Andrea Rossetti