Categorie: Personaggi

L’atlante umano di Boltanski

di - 6 Giugno 2013

«Le fotografie, allora, servono a riportare in vita i nostri cari defunti?»
«No, le fotografie non riportano in vita i morti. Servono a ricordarci che i morti sono morti».
Su questa conclusione lapidaria si è chiuso il breve – ma intenso – intervento di Christian Boltanski dello scorso 29 maggio a Parigi, nella cornice della Fondation Cartier – Bresson , in occasione dell’incontro mensile del ciclo Les grands entretiens de la Fondation HCB organizzato e diretto da Clément Chéroux, curatore del fondo fotografico del Centre Pompidou. L’incipit è dato da un’antica scatola di fiammiferi – di quelle che venivano offerte ai consumatori nei ristoranti degli anni Quaranta/Cinquanta e sulle quali era possibile apporre una fotografia – uno  degli oggetti portati dallo stesso Chéroux per articolare l’intervista.
Per quello che sulla cartolina di invito viene definito come peintre, pittore, la presenza della fotografia all’interno dei propri lavori diventa fondamentale, proprio a partire dalla scelta di abbandonare alla fine degli anni Sessanta. «Ho cominciato a fare fotografia quando ho visto che tutti gli altri si esprimevano con questo mezzo, in realtà un po’ tutti facevano fotografia». Ecco che nel 1975, Christian Boltanski pubblica la raccolta Photographie che raccoglieva foto amatoriali volutamente prive di alcun soggetto o senso preciso; l’esperimento sarà così efficace da diventare il primo passo di una grande carriera.

Nel suo lavoro è sempre presente il fil rouge che lega la sua famiglia alle drammatiche vicende della deportazione ebraica ad opera dei nazisti durante la seconda guerra mondiale. L’artista, però, sceglie di non farvi un riferimento preciso. «Avrei potuto parlare degli ebrei nelle mie opere, invece ho scelto gli svizzeri, per esempio, perché sono morti senza un’apparente motivazione». Eppure in molti dei suoi progetti, come quello proposto a Monumenta 2010 – dove l’artista ha presentato tonnellate di vestiti accatastati in un ambiente freddo come un cimitero, il cui solo accompagnamento sonoro era la registrazione dei battiti cardiaci di 15mila persone – è difficile non pensare ad un legame con le immagini degli oggetti appartenuti agli ebrei deportati nei campi di concentramento.
Dopo gli ultimi progetti – Les Archives du Coeur, partito nel 2005 e che consta in 45mila battiti di persone da tutto il mondo raccolte nell’isola giapponese di Ejima e Chance presentato al Padiglione francese alla Biennale di Venezia 2011, che mescola decine di fotografie di neonati, tratte da un quotidiano polacco, con immagini prese dalla pagina dei necrologi di un giornale svizzero – Boltanski ha dato il via nel mese di marzo 2012 a una nuova sfida che lo accompagnerà sino alla morte. Storage Memory racconta per la prima volta non il ricordo della vita di altri, ma il tempo della sua esistenza e lo fa attraverso una serie di video – dieci al mese dalla durata di un minuto ciascuno – che il pubblico può acquistare al prezzo di 10 euro al mese direttamente su Internet. Non si tratta più di un’opera che viene prodotta ed installata all’interno di un museo o di una galleria, ma di testimonianze di vita che rappresentano minuti che non si ripeteranno più, che rimangono registrati negli archivi di chi deciderà di acquistarli, conservando una traccia unica nel suo genere. Il pubblico non incontra più l’artista celato dietro le sue opere, ma intrattiene con lui un rapporto personale.

«Ciascuno di noi è un individuo, con caratteristiche proprie che lo rendono unico. Il mio lavoro si concentra su ciascun essere vivente e sulla sua scomparsa». La dimensione del ricordo viene ricostruita all’interno delle sue installazioni mediante la presenza di oggetti, fotografie, testimonianze che possano raccontare delle storie di altri che diventano incredibilmente anche le nostre. Raccontare delle storie, dunque, non quelle dei volti rappresentati, ma di chiunque venga in contatto con le sue opere. Sia che si tratti di fotografie che di oggetti, questi ultimi non sono resi riconoscibili a qualcuno che ne possa individuare la provenienza: le foto vengono tagliate o rese sfocate, le masse di oggetti «vuoti, ricordano che sono stati di qualcuno, non importa sapere di chi».
Pensiamo alle immagini realizzate per il Padiglione Francese alla Biennale di Venezia a partire dalle foto di neonati polacchi e morti svizzeri. Quei volti sono nuovi ritratti di persone che non esistono, ma che potrebbero essere vissute, potenzialmente grazie a una frazione di secondo. «Siamo sette miliardi di persone uniche, che sarebbero diverse se i nostri genitori avessero fatto l’amore anche solo un attimo prima o dopo. Ciò che io sono dipende da un miliardesimo di secondo. Lei può uscire di qui e farsi investire da un’auto, oppure salvarsi, questione di mille coincidenze. È affascinante», afferma con disincanto Boltanski.
La fotografia diventa il medium per raccontare la presenza di un’assenza, pur sapendo che non farà tornare indietro nel tempo.

Nata a Roma nel 1988, consegue la laurea magistrale in Storia dell'Arte nel 2012 presso Università degli Studi di Roma La Sapienza. Dopo aver fatto diverse esperienze nel campo, dalla didattica e mediazione presso il MAXXI all'esperienza in galleria tra Roma (1/9unosunove) e Parigi (Galerie Antoine Levi), nel 2014 è assistente al coordinamento delle gallerie partecipanti ad Artissima a Torino. Oggi si sta formando per diventare Registrar. Collabora con Exibart dal 2012 e da un anno anche con INSIDE ART. Scrivere è da sempre la sua passione.

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