È notte e tutto è silenzioso intorno a me. Provo a dormire ma non ci riesco. No, non è solo il caldo… ho provato a prendere un sonnifero, ma per il momento nessun effetto. Sperimento nella mia carne tutta la fatica di essere uomo fino in fondo. Ho paura di tutto, ma soprattutto della morte lentamente soggiunta di un amico, soffro. Per quella bella persona che è morta, o è rinata a Torino, ieri mattina: Ivan Fassio. L’ho frequentato con le mie esperienze letterarie, gli ho parlato, l’ho guardato dritto negli occhi per cercare di comunicare la speranza in giorni nuovi e migliori. Si tratta troppo spesso della richiesta di un improbabile miracolo, ma Ivan è morto perché è nato per sempre. Mi angoscia la solitudine con cui vivo tutto questo… ma tu, poesia, non hai forse guarito in te stessa le ferite dell’uomo che soffre, piange, è malato…? Ti seguo in questa improponibile via: sono ancora troppo scrittore… e tu mi chiedi di fare passi da gigante nella responsabilità e nella profondità con cui vivere le relazioni che mi poni davanti. Cerco una via di fuga… ma ti chiedo, se vuoi, di non concedermela: tu mi conosci, sono troppo debole per non imboccarla con decisione qualora mi si presentasse davanti. Uso la mia povertà di creatura, il mio credermi incapace di avvicinarmi alla poesia dell’altro, per confermare a me stesso che dovrei sottrarmi all’idea della morte di un amico: è che le parole sono così inadeguate! Ma tu, poesia, non darmi retta, rinnova la tua letizia e la tua accoglienza, perché non perda la speranza, che significa abbandono nelle tue braccia letterarie. Purtroppo la morte, come si sa, è una caratteristica della natura dell’uomo, una cosa che l’uomo non può combattere; ma c’è una cosa importantissima che ci distingue da tutti gli altri componenti naturali: di noi la morte si prende solo il corpo, la parte materiale, quella cioè che ci accomuna con tutti gli esseri viventi e con la quale abbiamo trascorso la vita in questa terra. Non so, è come se anche tu poesia fossi convinta che in noi vi sia un’anima.
Ma credimi, la mia introduzione a Il culto dei corpi di Ivan Fassio, è una testimonianza del divenire, un minimo sospetto della sua presenza. Per questo motivo non vedo la morte con terrore, anzi. Vedo la morte come un grande libro di storie (breviario eventuale lo chiamerebbe Ivan) che, una volta aperto, mi consentirà di leggere tra le pagine della sua anima. Fin da quando nasciamo, siamo abituati a vedere di noi solo il nostro corpo, la nostra figura esteriore, la nostra fisicità e siamo convinti di essere solo carne ed ossa, poiché ogni giorno, quando ci alziamo per andare al lavoro, ciò che si riflette nello specchio non è mai l’anima, ma il corpo. Molti di noi hanno amato e amano il proprio corpo, accettando la propria immagine naturale e ponendo come fine di questo amore soltanto il bene del corpo stesso. Altri, invece, non hanno lo stesso rispetto, forse non si sono mai rassegnati ad avere un’unica immagine di se stessi, o perché non si piacciono, o perché spinti dalla collettività. Per questo molti cambiano colore di capelli ogni settimana, bucano il corpo con piercing e orecchini, o lo coprono con costosissimi tatuaggi. Il lettore allora si chiederà: ma tutto ciò che cosa c’entra con la morte di Ivan Fassio? Credo che se tutte queste persone avessero un po’ più d’amore verso se stessi e soprattutto verso il proprio corpo, così come è stato per Ivan e per il suo lungo percorso concettuale per scrivere Il culto dei corpi, avrebbero maggior paura della morte, e dunque non farebbero uso di decorazioni, ma di scrittura che, come in Fassio, conduce a letizia (l’aura ritrovata). Sembra una conclusione affrettata, lo so, ma se ci si pensa bene, perché mai l’uomo dovrebbe volere la morte? Colui che fa uso di parole, sa che esse portano inesorabilmente alla rinascita! Forse queste parole hanno un amore insospettabile per la poesia «dal proprio corpo».
Intensa poesia, ha rivelato la parola di Ivan Fassio e ci riporta all’Angelus Novus di Paul Klee, che mi piace di commentare con le notazioni di Walter Benjamin:«… un angelo… in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, si è impigliata nelle sue ali ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale, davanti a lui, al cielo». La poetica di questo «Angelo nuovo», giovane, aperto alla vita, e con linguaggio di estrema coincidenza con Ivan Fassio, reca la fragranza delle immagini, affrontando la drammatica situazione di un Prometeo, per cui la sua stessa vitalità viene distrutta e ricostruita.
Ivan Fassio aveva negli occhi lo sbalordimento del povero angelo dalle ali impigliate, fino a trasportare il disagio della malattia nella sua ultima raccolta poetica Il culto dei corpi. È enorme il distacco della poesia di Ivan Fassio, che potremmo definire biblico. Si scorge in essa l’alone di irrealtà, che sostituisce il vago delle tendenze ermetiche, più incisivo perché contiene il tragico snodarsi degli eventi e procede per incastro di logico-analogico, nello svolgersi dei perché sottesi e nelle probabili risposte. Viene così lacerata ogni retorica da parte di Ivan, per lasciare a noi la lettura del rito, nello scarnificato reale, sempre più ipotetico. È come se Fassio ci chiedesse: «e tu uomo, che ho incontrato? tu hai avvertito l’ansia del mondo? anche tu hai sentito che io con la mia parola resto e rinasco?». Adesso, sembra che il poeta sia già sepolto nel groviglio degli attimi, e non c’è scampo né alla luce del giorno né nelle tenebre dove potrebbe verificarsi l’attesa trasfigurazione. I rumori della notte somigliano ai sobbalzi dei bimbi, messaggi occulti in lingua diversa, rinascite e ricomposizioni, che si avvertono nel mimo impreparato. Arrivano impetuosi da mura di scorie – senza palpiti, senza futuro – e restano nell’aria reale – in una divina indifferenza, immutabili alla loro stessa rinascita. Forse nel sognare e quindi nel poetare di Ivan Fassio, c’è la speranza di una salvezza, anche se ridotta a simbolo nel tempo: «sognerò che mi starai aspettando – alle porte di Enaim – io verrò a te nudo, nel Culto dei Corpi, come una croce di legno duro, svolazzando nella sfera delle incomprensioni». C’è quindi un dichiarato scacco dell’esistere nell’opera, che ci lascia Ivan Fassio, una totale disfatta che è anche costruzione e rinascita di timicità. Una sehnsucht che una volta illuminava, ma in tale sconfitta afferma ancora una volta l’eroicità del poeta (curatore di eventi e mostre), breviario eventuale in progress, che di tale disfatta, nelle fughe eterne, è il più consapevole.
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Grazie per le belle parole piene di amore
Penso che è l'amore che non permette alla morte di essere vittoriosa
Ho conosciuto Ivan Fassio,
nelle righe della sua poesia
e già non c'è più.