Le fotografie di Francesco Jodice esposte sul cantiere di AGO Modena Fabbriche Culturali

di - 23 Aprile 2024

Arrivato alla quinta tappa del suo progetto, Francesco Jodice – che dal 2021 ha vestito il cantiere con Storia di un cantiere, Ritratti di classe e Una giornata particolare – conclude il suo intervento affrontando il tema del futuro immaginato dai giovani e dell’autorappresentazione delle nuove generazioni. Le immagini sono la restituzione fotografica della performance che ha avuto luogo nella piazza antistante l’ex Ospedale Estense e hanno preso forma, mediante l’impiego di nuove tecnologie e intelligenza artificiale, grazie a un workshop che ha coinvolto l’artista insieme a quindici ragazzi tra i 15 e i 19 anni, i cui immaginari futuri e fantastici hanno la possibilità di mostrarsi alla comunità. Nuove generazioni, tecnologia ancora da affinare e da studiare, rinnovati modi di pensarsi, autorappresentarsi e comunicare la nostra realtà e la nostra identità in continua evoluzione: sono queste le infinite variabili del futuro a cui Francesco Jodice ha cercato di dare forma e di cui ci parla in questa intervista.

Francesco Jodice

Con Save your Selfie siamo arrivati alla quinta tappa del progetto Come and See. Come nasce questo progetto e la necessità di rapportarsi con le nuove generazioni e le nuove tecnologie?

«Save your Selfie è il quinto e ultimo capitolo di un progetto nato tre anni fa dal titolo Come and See, una committenza ricevuta da AGO e dalla città di Modena, che voleva allestire una sorta di diaframma fruibile, attraversabile, tra ciò che accadeva all’interno del cantiere – quindi anticipare la nascita di questa grande fabbrica culturale che sarà poi a disposizione delle future generazioni – e la comunità, cioè far sì che questo cantiere non fosse un cantiere esclusivo ma inclusivo. In realtà non sono stato chiamato a realizzare cinque progetti di fotografia, ma di arte pubblica. Si tratta di un grande frontone, quasi fossimo davanti alle narrazioni degli obelischi romani o dei templi greci, dove in qualche modo si tentava di coinvolgere la comunità.»

Cosa puoi dirci di questo ultimo progetto nello specifico?

«Come and See invita a vedere e a capire cosa questo luogo significherà per la comunità. L’ultimo capitolo, Save your Selfie, è un tentativo di non parlare più dell’architettura, del luogo e della fabbrica, ma di chi la occuperà, di chi la utilizzerà, di chi ne abuserà e che uso di queste culture farà la nuova generazione. Abbiamo voluto ironizzare sul selfie nel titolo del progetto: si tratta di un selfie, ma allargato, quasi “sgrandangolato”, dove i ragazzi si sono autoritratti ma sono anche costretti a non obnubilare il paesaggio, come accade spesso nel selfie. Sono fotografie estremamente panoramiche dall’orizzonte molto ampio e, grazie ai prompt che abbiamo chiesto loro di scrivere, i ragazzi hanno costruito un grande lessico, un grande catalogo degli scenari che vorranno abitare nei prossimi futuri.»

Il progetto nasce da un workshop con dei ragazzi di una generazione che non ha scoperto la tecnologia, ma per cui la tecnologia è parte integrante dell’identità e del modo di comunicare. Vi siete trovati sulla stessa lunghezza d’onda? Hai intuito delle aperture inattese a riguardo da parte delle nuove generazioni?

«Per fortuna assolutamente no. Mi spiego meglio, una delle condizioni più intriganti di questa generazione è quella di aver negato qualsiasi rapporto di ereditarietà. Sono poco disposti a riconoscere un modello nei modelli precedenti. C’è una sorta di grande frattura culturale. In qualche modo tutto il loro ecosistema, l’ambiente, l’habitat che si stanno costruendo è autoreferenziale e prende prevalentemente spunto da una serie di condizioni culturali autopoietiche o anche precedenti, ma che non sono i riferimenti canonici, accademici. Questo chiaramente non è né positivo né negativo, è un fatto con il quale – lo dico da anziano – è necessario confrontarsi. Esiste un grande cambiamento che rappresenta una frattura. Le fratture sono sempre dolorose, ma anche estremamente interessanti e devo dire che, essendomi confrontato nel corso del workshop con delle proposte disorientanti, da docente è stata una bellissima opportunità per stare affacciato al balcone e vedere se finalmente ci sarà una generazione di autori, di artisti che volteranno pagina e di cui, in generale, la scena dell’arte contemporanea ha un po’ bisogno.»

In questo progetto hai preso in causa il linguaggio dei social e l’intelligenza artificiale, due ambiti in cui l’autorialità sta ancora scoprendo i propri confini, si sta reinventando. In che direzione sta andando lo sviluppo del concetto di autorialità e cosa ti auguri per il futuro?

«Questa è una domanda interessantissima, estremamente fondativa, e io ovviamente non ho una risposta intelligente. La cosa importante che sta accadendo è che le nuove generazioni, che saranno gli autori della scena futura, si sono totalmente liberate della necessità di procurarsi dei garanti. La storia dell’arte viene studiata attraverso una sorta di linea naturale di grandi numi tutelari, ma questa cosa è stata rifiutata.»

Con quali conseguenze?

«Dal punto di vista dell’autorialità questo produrrà un grande disorientamento, ma è anche vero che forse c’era bisogno di liberarsi da quel recinto che stabilisce ciò che è valido e ciò che non lo è. Noi come artisti siamo cresciuti nella perfetta consapevolezza che Thomas Saraceno è un’artista strepitoso e Frida Kahlo è una cialtrona. Posizione condivisibile. Quello che sta accadendo è che questa generazione di nuovi autori rifiuta le categorie, rifiuta tutta l’epistemologia che noi abbiamo attraversato da studenti e da docenti accademici. Io mi trovo davanti a studenti che rifiutano questa “accademicità” per principio. Questo crea una scena da “liberi tutti” e produrrà danni incalcolabili. Ma secondo me, se abbiamo pazienza, nell’arco forse non di una ma di due generazioni produrrà un lessico rinnovato. È una cosa necessaria, altrimenti continueremo a vedere Biennali e Documenta tutte uguali dove – come ha detto il nostro strepitoso Ministro – guardiamo al futuro, ma partendo sempre dalla tradizione. Questa generazione non lo ascolta, la tradizione l’ha cancellata, l’ha rifiutata. Col tempo, attraverso miriadi di danni incalcolabili, credo che vedremo qualcosa di significativo, un mosaico fatto di tessere nuove, originali.»

Francesco Jodice, Storia di un cantiere, #002, 2023

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