Protagonista indiscusso della nuova stagione del MAXXI è Enzo Cucchi, tra le figure più influenti della scena contemporanea dell’arte italiana. Conosciuto come il più istrionico tra i membri della Transavanguardia, Cucchi ha sempre portato avanti una sua idea di arte, di creatività, e di contatto con la sfera spirituale. Per tale ragione è uno degli artisti in mostra nell’esposizione a cura di Bartolomeo Pietromarchi, “Della materia spirituale dell’arte”. Si tratta di una mostra di artisti che hanno fatto della spiritualità la tensione infinita che anima la loro produzione, in un interessante raffronto con l’arte antica.
Cucchi è anche protagonista assoluto degli spazi della Sala Gian Ferrari, con una sola, straordinaria opera. Qui l’artista ha campo libero per sviluppare un progetto appositamente ideato per l’ambiente, in un’estetica singolare che intreccia passato e attualità, sintetizzando miti individuali e immaginario collettivo. In occasione di questa doppia apertura, gli abbiamo posto qualche domanda, per riflettere insieme sulle tematiche di interesse delle esibizioni, e sulla sua idea di arte.
L’esposizione al MAXXI riguarda la Sua attività più recente (l’opera è del 2019). Lei ha iniziato giovanissimo, e ancora propone uno sperimentalismo versatile e originale. Com’è evoluta la Sua arte nel tempo?
«Dovremmo chiederci come evolve il tempo all’interno dell’Arte. Ciò che produciamo – e formalizziamo – modifica la realtà perché la rende percepibile in maniera nuova, quindi il tempo stesso è fruibile sempre in maniera nuova, il tempo è sempre nuovo. La mia arte è sempre la stessa».
Perché il titolo “Insegne”?
«“Insegne” è il nome dei piccoli oli su tavola innestati in dei corpi ceramici. Si chiamano così perché indicano qualcosa. L’ingresso a uno spazio, il limite di una frase».
Non si tratta di una mostra antologica sulla Sua attività, ma una proposta recente; si rivela tuttavia un’esposizione efficace per avvicinarsi al Suo universo creativo. Da dov’è nata l’idea della mostra?
«Il lavoro nasce sempre da una necessità. Per ulteriori approfondimenti rivolgetevi al Bambin Gesù, ospedale di prim’ordine, nascono i bambini lì…».
«Esiste ancora un’esigenza spirituale alla base delle istanze dell’arte?». Questa la domanda che si è posto il curatore Bartolomeo Pietromarchi per l’altra mostra che lo coinvolge al MAXXI, “Della materia spirituale dell’arte”. Qual è la Sua risposta?
«L’esigenza spirituale esiste da sempre dentro la testa delle persone. Tutti abbiamo bisogno della spiritualità, ognuno esplica il proprio bisogno in maniera differente. C’è chi lo nega, come gli atei, i quali con la loro negazione sottolineano la presenza di qualcosa che ci infastidisce in quanto inesplicabile, non abbiamo i mezzi per spiegarlo ma lo spirituale è una costante che ci accompagna per tutto l’arco della nostra vita, assumendo forme diverse, spesso religiose, per alcuni mistiche, altri ancora si rifugiano nell’ortodossia. Ma il problema è sempre lì. L’Arte, elemento indagatorio, da sempre tenta di analizzare lo spirituale».
Inserirla tra gli artisti chiamati a riflettere sul tema era forse d’obbligo. I Suoi esordi in seno alla Transavanguardia lasciano intendere un rapporto eccezionale con la materia spirituale. Qualcosa è cambiato oggi?
«Sono cambiate le stagioni. Non vi siete accorti che c’è un altro clima?!».
Nella mostra collettiva, la Sua opera è avvicinata non solo a personaggi con i quali siamo abituati a vederLa accoppiato – come Francesco Clemente – ma anche ad altre personalità dell’arte, vedi Yoko Ono, Shirin Neshat e Thomas Saraceno. Come dialoga la Sua opera con quella degli altri artisti?
«Chiedetelo all’opera come dialoga. Che lingua parlano le opere tra di loro? Attenzione a distinguere tra personaggi e artisti. Yoko Ono è sicuramente un personaggio, ma dubito possa essere definita artista».
Nella mostra collettiva, le opere si confrontano con numerosi reperti archeologici. Anche nella personale c’è un contatto con il repertorio classico, a cui appartiene il putto in esposizione. Che rapporto ha Lei con l’Antico?
«Tutto ciò che viene definito “antico” e che giunge fino a noi, è contemporaneo. Il reperto è qui, lo possiamo osservare, studiare, possiamo percepirne la presenza nel nostro spazio-tempo, è quindi materialmente contemporaneo a noi. Se poi vogliamo anche dare una direzione alla linea temporale che ci accomuna, noi siamo più antichi di ciò che ci precede, veniamo dopo, portiamo con noi tutto il bagaglio culturale accumulato sin ora».
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