Lea Vergine, L’Arte non è faccenda di persone per bene, Conversazione con Chiara Gatti, Rizzoli, Milano 2016. In questo libro confessione si snoda la vita travagliata e sorprendente di Lea vergine dalla nascita alle falde del Vesuvio nella Napoli del dopoguerra, il passaggio a Roma fra politica e gallerie e la maturità nella Milano degli anni Sessanta. Nelle pagine di questo libro che si legge tutto d’un fiato, Lea Vergine si racconta senza censure ma con la fragilità emotiva di una donna che è cresciuta divisa fra due famiglie in silenziosa lotta fra di loro, quella dei nonni paterni che l’hanno allevata e quella di sua madre e dei suoi due fratelli.
Lea Vergine è stata una figura iconica, per quello che faceva, per quello che diceva e per come lo diceva fra una sigaretta e l’altra, certamente per quello che scriveva e poi per come era e, ma questo l’ho scoperto dopo, per la sua storia personale dominata da lacerazioni e strappi. Un’intellettuale di razza, bella e affilata con occhi penetranti, capelli a caschetto perfetti e vestiti elegantissimi che solo lei sapeva portare con quella naturale noncuranza di chi è a suo agio nella propria pelle.
Acuta, brillante, famosa per le sue risposte taglienti, un personaggio difficile e affascinante che ha aperto porte ermeticamente chiuse riportando alla luce le opere di artiste che oggi sono mainstream grazie ad una mostra: “L’Altra metà dell’Avanguardia 1910-1940”*. Questa inedita collettiva ha anticipato di molto il tempo presente della riscoperta mercantile del talento delle artiste e ha avuto il merito di posizionare criticamente lo straordinario lavoro di Carol Rama, l’indisciplinata signorina torinese di buona famiglia, che nel ventennio più patriarcale e repressivo della storia italiana ha creato una serie di acquerelli così spudoratamente erotici da farli finire nel dimenticatoio per quasi sessant’anni.
Lea Vergine non era una femminista, anzi sul movimento ha più volte espresso le sue personali riserve, certamente era troppo rigorosa per poter apprezzare il lato più folcloristico delle proteste di piazza ma, nonostante la sua severità e il suo apparente generale distacco, ha però saputo cogliere meglio di tanti altri lo zeitgeist del suo tempo. A questo proposito penso ad un saggio fondamentale pubblicato nel 1974, Body Art e storie simili: il corpo come linguaggio, in cui Lea Vergine offre una panoramica sorprendentemente ricca delle sperimentazioni che gli artisti e le artiste di quel fecondissimo periodo stavano mettendo in atto a livello internazionale, scardinando linguaggi visivi e offrendo nuove e inedite prospettive, in un periodo in cui non esisteva internet e l’America era davvero lontana. Questo libro che ho molto amato e studiato è diventato nel 2015 il palinsesto su cui costruire una collettiva che, in omaggio alle ricerche di Lea Vergine, ho titolato “The Body As Language” e che poi, opportunamente rivisitata, è diventata “Corpo a Corpo” la collettiva che ho presentato alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma due anni dopo.
Quando stavo preparando la prima mostra ho pensato che sarebbe stato un onore poter intervistare Lea Vergine e avere una sua testimonianza per il catalogo e quindi, grazie alla presentazione di una comune amica, sono finalmente entrata in quel mitico appartamento zeppo di libri della coppia Vergine-Mari. Ricordo la conversazione brillante e allo stesso tempo decisamente impegnativa, le domande inquisitorie sulle mie scelte curatoriali, il disappunto per la mancanza di Carol Rama nella lista delle artiste storiche.
Rimasi colpita non solo dal generale senso di elegante sufficienza non solo verso le mie spiegazioni ma anche per le cose del mondo da cui lei sembrava ormai piuttosto distaccata ma, soprattutto, per l’incredibile quantità di sigarette fumate, con mia grande invidia, a ritmo continuo. L’intervista poi non l’abbiamo fatta ma le due ore passate a conversare sono state un regalo prezioso nonostante il persistente senso di inadeguatezza che mi ha accompagnata durante tutta la visita.
* L’altra metà dell’avanguardia, è il titolo della mostra ideata e curata da Lea Vergine nel febbraio del 1980 al Palazzo Reale di Milano, con allestimento di Achille Castiglioni, che presentava le opere di oltre cento artiste attive nei movimenti internazionali dell’avanguardia dei primi del Novecento e che erano state ingiustamente cancellate dalla narrazione storiografica dominante. Fu una scoperta che fissò un canone valido a livello internazionale e impose all’attenzione di pubblico e critica autrici che da allora hanno ottenuto piena cittadinanza nel campo delle arti visive.
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