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L’inclusività della lingua italiana: intervista (al contrario) a Vera Gheno
Personaggi
Rettrice, maestra, sindaca, segretaria, architetta, avvocata. Cos’hanno in comune queste professioni? Sono tutte declinate correttamente al femminile. Normale routine. Eppure ci sono alcuni di questi termini che fanno storcere il naso a non poche persone, ritenendo intollerabili le declinazioni di genere. Dietro a queste reazioni c’è un mondo di parole, fatto di storia e di usi che riflette quel che pensiamo, come ci costruiamo, e le convinzioni linguistiche della comunità italiana, con una inclinazione irrimediabilmente maschilista. Ne abbiamo parlato con Vera Gheno, sociolinguista specializzata in comunicazione mediata dal computer.
Tra le ultime pubblicazioni di Gheno c’è proprio Femminili Singolari edito da effequ. Nel testo, la sociolinguista mostra in che modo una rideterminazione del femminile si possa pensare a partire da un uso consapevole delle parole, primo passo per una pratica femminista.
Fortunatamente si parla sempre più spesso di inclusività del linguaggio. Un caso su tutti, i poster del Lucca Changes di quest’anno, dove si dava il benvenuto a tutte le persone, usando la forma della schwa. Ne parlavamo qui.
Non si tratta di un cambiamento improvviso. L’inclusività è un cammino tortuoso, che costringe anche chi si attiva a un considerevole sforzo nel ripensare le proprie abitudini. Ma a fronte di chi si impegna in questa direzione, ci sono molte persone dubbiose, che, senza interrogarsi troppo sulle profonde ragioni di questo tipo di linguaggio, liquidano le operazioni con commenti scettici.
Per ovviare al problema, anziché formulare delle domande a Gheno, abbiamo ripreso alcuni di questi commenti, e glieli abbiamo sottoposti. Un’intervista al contrario, dove non risponde tanto a noi, ma ai commenti che questa intervista avrebbe potuto ricevere. Purtroppo non si trattano di interrogativi posti come esercizio di stile; si tratta di commenti letti davvero in calce agli articoli sul tema, o anche ascoltati durante chiacchierate in compagnia. Qui Vera Gheno risponde a tutti. O meglio, a tuttə.
«La questione non è linguistica, ma piuttosto sociale, culturale e politica». Intervista a Vera Gheno.
Ma cosa cambia se uso una parola rispetto a un’altra?!
«Siccome ogni parola veicola un “grappolo” di significati, non è affatto indifferente sceglierne una rispetto a un’altra. Ogni parola che usiamo è atto di identità individuale (racconta agli altri chi siamo), atto di identità collettivo (identifica la “tribù” alla quale apparteniamo) e indicazione della nostra visione del mondo (noi esseri umani concettualizziamo la realtà che ci circonda tramite le parole). Ti sembrano quisquilie?»
Così uccidiamo la lingua italiana!
«Se approfondissi un po’ la storia della nostra lingua, scopriresti che i nomina agentis al femminile esistevano già in latino e hanno accompagnato tutta la storia del volgare, poi italiano. Per cui, chi usa i femminili professionali si muove nel solco della tradizione della nostra lingua. La questione, infatti, non è linguistica, ma piuttosto sociale, culturale e politica».
Ma io sono abituato/abituata a dire così… E ogni volta usare un linguaggio inclusivo diventa ripetitivo e cacofonico. Dire sempre “tutti e tutte”,… si sa che quando dico tutti mi sto rivolgendo all’intera platea!
«Certo, ma poiché ciò che viene nominato si vede meglio, per molte persone che fino a oggi non avevano la possibilità di prendere la parola nel dibattito pubblico è particolarmente importante essere nominate nel modo corretto. Le donne, per esempio, rappresentano la metà della popolazione, eppure sono a oggi state sottorappresentate. E gli usi linguistici sono dimostrazione proprio di questo».
Le vere battaglie sono altre.
«Quali? Vorrei ricordare due cose. Primo: non siamo degli iPad di prima generazione e possiamo occuparci di più questioni in contemporanea. Secondo: di solito ricorre alla scusa del benaltrismo chi è a corto di argomentazioni. Altrimenti, come si fa a decidere quale sia la Battaglia Più Importante Di Tutte, quella che nessuno potrà mettere in secondo piano con la frase “i problemi sono ben altri”?».
Per carità! Io, da donna che esercita la professione dell’avvocatura, preferisco di gran lunga essere chiamata “Avvocato”. Anzi, mi arrabbio con chi mi chiama diversamente!
«Libera di farti chiamare come credi, ma nel frattempo ti consiglio di chiederti perché ti arrabbi. In molti casi, la donna stessa sente il femminile come svilente. Però, guarda un po’, succede solo per le professioni che fino a oggi erano usate soprattutto al maschile perché appannaggio quasi esclusivo dei maschi. Nessuna maestra, nessuna cassiera e nessuna regina si offende per essere appellata al femminile».
Allora aspetto anche il guardiO giuratO, il guidO, l’artistO, il baristO,… non è discriminazione, ma semplice sintassi.
«Non esattamente; casomai è morfologia, dato che la sintassi si occupa della combinazione dei vari elementi di una frase. E se ripassassi la morfologia, scopriresti che non tutte le parole si declinano al femminile nello stesso modo. Ci sono i nomi di genere fisso, per i quali maschile e femminile sono due parole del tutto diverse (fratello/sorella); i nomi di genere comune, per i quali basta cambiare l’articolo (il/la pianista; il/la docente); i nomi di genere promiscuo, ai quali “manca” uno dei due generi (la guardia, il pedone), ma ai quali normalmente basta il contesto per chiarire il riferimento; i nomi di genere mobile, gli unici che si declinano (infermiere/infermiera, sarto/sarta, rettore/rettrice ecc.). Quindi, citare “guardio” come controesempio di “ministra” è solo segno del fatto che… devi ripassare!»
Sinceramente trovo che sia una affermazione inutile del genere. Se Zaha Hadid è stata eccellente nella sua professione, lo è stata a prescindere dal fatto che fosse donna.
«Io non la vedo come una rivendicazione “di genere”, quanto la semplice applicazione delle norme dell’italiano. Zaha Hadid è nell’Olimpo degli architetti, ma lei è un’architetta, tutto qua. Come io sono una professoressa ed Elisabetta una regina. Diresti mai “il re Elisabetta”?»
Ma non si risolverebbe la questione riconoscendo valore neutro ai termini “Ministro”, “Ingegnere” e così via? D’altronde non conta il genere di chi riveste quella professione, ma la qualità con cui la esercitano.
«Premesso che il neutro in italiano non esiste, come mai alcuni nomi di professione sarebbero neutri e altri no? Immagino che tu non abbia mai avuto dubbi a dire cassiera, sarta, professoressa, dottoressa; il dubbio ti viene davanti a questora, ministra, minatrice o avvocata. E sai una cosa? L’unica vera differenza tra questi due gruppi di esempi è l’abitudine a usarli. I secondi sono meno consueti perché fino a tempi recenti non c’erano donne (o quasi) da chiamare in quel modo; di conseguenza, non usavamo nemmeno le parole per riferirsi a tali donne».
Sindaca, Architetta, Ministra… suonano malissimo!
«Che mi dici di isterosalpingectomia, transustanziazione o epiglottide? A me suonano male. Che facciamo, le “aboliamo”? Nella lingua quotidiana usiamo le parole che ci servono, non solo quelle che suonano bene. Altra questione è la poesia o la narrativa. In quel caso, sceglierai le parole da usare in base al loro suono. Nella vita di tutti i giorni, no».
Non si possono proprio vedere schwa, *, x e u alla fine delle parole. Non vi sembra di accanirvi inutilmente?
«Intanto, “voi” chi? Non mi piace il noivoismo (per gli inglesi: othering, cfr. il libro #Odio di Federico Faloppa, Torino, UTET, 2020), perché è un modo per arroccarsi su posizioni stereotipate. Non esiste un “voi”. Secondo me, in questo campo, occorrerebbe anche smettere di pensare all’esistenza di “nemici”. Alla fine, ogni persona parli per sé con la propria voce. Ora, sul “non si può vedere x”, io penso che occorra mettersi all’ascolto di coloro che, per vari motivi, usano invece già da qualche tempo tutti quegli escamotage a cui accenni. Evidentemente, per loro quella lettera finale è importante e significa qualcosa. Per esempio, il riconoscimento della loro identità.
A volte, fatichiamo a riconoscere i nostri privilegi all’interno di una società sempre più piena di “diversità” (di genere, di colori della pelle, di orientamento sessuale, di religione, di caratteristiche fisiche, ecc.); e allora, uno dei modi che abbiamo per farla progredire, questa società, è ascoltare le persone che sono vittime di discriminazioni più o meno esplicite, e cercare di comprendere come si sentano, cosa possano provare. Nel caso specifico di asterischi, schwa e il resto, si assommano due questioni: il fatto che normalmente, a una moltitudine mista, ci si rivolga a maschile (facendo scomparire le donne, prima di tutto); e poi, che oltre a uomini e donne, in quella moltitudine ci possono essere anche persone che non si identificano con i due generi maschile e femminile (e si definiscono non-binarie). Quelle soluzioni nascono proprio per includere
tutte queste persone all’interno della “molteplicità mista”. Tutto qui. Si aggiunge un modo di esprimersi, senza togliere nulla a nessuno.
Ma che cos’è lo schwa?
«È un simbolo dell’IPA, o alfabeto fonetico internazionale, e indica la vocale media per eccellenza. È un suono indistinto che si ottiene tenendo la bocca “a riposo” ed emettendo aria. Si scrive ə. Il nome viene dall’ebraico e significa “insignificante”. In Italia o si usa il nome tedesco, schwa, o la sua forma italianizzata, scevà. È presente nella pronuncia di molti dialetti (es. il napoletano: cazzimmə); è una delle tante soluzioni alla “questione del binarismo” che circolano da anni in alcuni gruppi che hanno un interesse specifico nei confronti di queste istanze (collettivi LGBT+ o circoli femministi, per esempio)».
Ricordiamoci che la lingua non cambia a piacimento, non possiamo imporre delle nuove “regole”, ma è l’uso che la modifica…
«Sono assolutamente d’accordo. Infatti, nessuno che abbia un minimo di competenza linguistica pensa di imporre nulla. In realtà, è proprio l’uso di questi anni (da parte di gruppi circoscritti della popolazione) che fa notizia: proprio l’esistenza di così tante soluzioni diverse rispetto alla questione della moltitudine “mista” dovrebbe farci riflettere. Evidentemente, esiste un’istanza che interessa almeno una parte di coloro che parlano italiano. E boh, sarò strana io, ma secondo me, se c’è una parte dei nostri connazionali che si sta interrogando sull’esistenza di strategie linguistiche per andare oltre il binarismo di genere, è giusto prenderne atto. A oggi, io non penso che ci sia una soluzione migliore delle altre, perché ognuna ha dei difetti (l’asterisco non ha un suono; lo schwa è troppo “di nicchia”, la u in molti dialetti designa il maschile, la x pone di nuovo
un problema di pronuncia, la chiocciola idem…). Quello che sto cercando di far comprendere al numero più ampio possibile di persone è che queste soluzioni valgono come evidenziazione di una questione che non va ignorata, ma anzi, che va presa in carico, in una società che ambisce alla convivenza con le differenze (come ci ricorda Fabrizio Acanfora, autistico e teorico della necessità di superare il concetto di “inclusività”). La “soluzione definitiva”, invece, manca: chissà se nel giro di dieci, venti o trent’anni verrà trovata».
Quando non si hanno veri problemi si pensa agli asterischi, alle x e allo scevà da mettera a fine parola
[…] lingua condotto da Marco Guerini e Vera Gheno (ricordate la sua intervista per exibart? La trovate qui). L’evento si svolgerà alle 17:30 nella Sala Conferenze del Mart. Alle ore 20:30 […]