Categorie: Personaggi

L’intervista/Achille Bonito Oliva | Io, barman iconografico

di - 10 Febbraio 2014
I grandi nomi internazionali, come Jimmie Durham, Ian Fabre e Pistoletto, ma anche figure non facili: Liliana Moro, Cesare Pietroiusti e Betty Bee. E poi tanti video – tra gli altri: di William Kentridge, Christian Jankowski, Francesco Vezzoli – e faccia a faccia con artisti. Non è una mostra, ma un programma tv: “Fuori Quadro” (titolo peraltro di una rubrica di Exibart dedicata al rapporto tra cinema e arti visive). Autore, insieme a Cecilia Casorati, Paola Marino e Alessandro Buccini, è Achille Bonito Oliva, che ne è anche il conduttore. E che della tv è un vecchio habituè. C’è stato in anni non sospetti, prima che di arte si cominciasse a parlarne con la placida guida di Philippe Daverio: «Negli anni ’90, su Raiuno ho fatto “A.B.O. collaudi d’arte”, sei minuti divisi tra opere, interviste al pubblico e profili di artisti, che poi venivano replicati random, come spot, sulla rete. Su Cult (Sky), nel 2004, ho fatto venti puntate di “A.B.O.rdo dell’arte” , l’anno dopo “Il giorno della creazione”, girato nell’atelier di un artista. Ma poi ci sono le mie apparizioni a “Quelli che il calcio”, “Linea notte”».

Ora A.B.O. in tv ci torna con un nuovo programma che punta dritto all’arte contemporanea, in onda su Raitre la domenica alle 13.20, senza la mediazione di “spalle” e il parlare genericamente di altro, piuttosto che di arte. Preoccupato della fascia oraria, di portare all’ora di pranzo il pubblico tv nell’occhio del ciclone, tra performance, arte di denuncia, atelier di artisti? Neanche per sogno. A.B.O., incontrato a casa sua, con l’immancabile sigaro tra le dita, parla, snocciola le sue idee, sicuro di fare centro anche stavolta.
Che programma sarà?
«Un programma che mi somiglia. Ogni puntata è monografica, presentata attraverso materiali girati e video, e riguarda il sistema dell’arte. Direi, meglio, che si tratta di un programma “socratico”, perché dialogo con artisti, collezionisti, direttori di musei, critici, sintetizzando il contesto culturale entro cui viviamo, ma rifacendomi anche alla temperie culturale. Per esempio la puntata sull’ “Avanguardia totale” comincia con Wagner».

E tu sei il conduttore.
«Certo, ma più che altro sono un “barman iconografico” che mette insieme più materiali per offrire un cocktail sempre di marca A.B.O., ma fatto di diversi ingredienti, fedele alla mia impostazione multimediale, transnazionale, nomadica che rispetta il genius loci, ma dove non esistono territorialità e dove emerge la mia idea di “eclettismo espositivo”».
Un esempio?
«La puntata “In totale” mette insieme Massimilano Gioni e la sua Biennale di Venezia, il MAXXI con la mostra su Ian Fabre, ma anche Otto e mezzo di Fellini e Cremaster di Matthew Barney. Ogni tema della puntata è confezionato attraverso materiali e interviste. Punto alla formazione, non all’informazione, perché approfondisco realmente gli argomenti. Penso anche che i 30 minuti possano permettere un programma come questo, è una durata televisivamente corretta, non invadente, legata al ritmo che deve avere una trasmissione tv e dentro la quale si può stare con decenza. La scelta dell’orario è un’intuizione di Raitre che risponde a buon senso».

Non temi di essere risucchiato dalla grande marmellata televisiva e che il linguaggio dell’arte possa appiattirsi?
«Non ho questo problema, non solo perché conosco la tv, avendone fatta molto in due modi: attraversandola con il mio narcisismo, il mo senso del gioco, senza però delegittimare il mio ruolo di critico abbassando i toni perché anche la sciampista possa capire l’arte contemporanea, e poi ho partecipato a diversi programmi al di là della mia identità culturale. Poi, il pubblico di Raitre, abituato da anni a una televisione piuttosto di qualità, non è aggressivo verso tutto ciò che non capisce immediatamente. E sono anche convinto che si può stare in tv con garbo, senza essere pedanti. Diciamo che ho fatto molto footing per arrivare qui»
Che ne pensi degli altri critici d’arte che vanno in televisione, il recente programma di Francesco Bonami su Sky l’hai visto?
«Bonami non l’ho visto e quindi non posso dire niente. Daverio l’ho visto con molta simpatia, in tv ha portato un dandismo personale, con un abbigliamento consono alle sue apparizioni. Daverio è un misto di mitezza e umiltà: l’attenzione alle arti minori, le visite ai castelli e quando si occupa di arte contemporanea lo fa con molta modestia. Ci ha risparmiato lo scetticismo, lo sfottò sull’arte contemporanea: l’idea che tutto sia legato al mercato, che il successo sia costruito e altre banalità del genere».

Quindi, ti senti perfettamente a tuo agio.
«Sì, non solo perché ho una consuetudine con la televisione, ma per tutto il mio lavoro di critico fino ad oggi: in Cina è stato pubblicato il mio ottavo libro e qui in Italia sto lavorando al terzo volume della mia Enciclopedia delle Arti Contemporanee, edito da Electa e dedicato al “Tempo inclinato”. E già nella mia prima mostra, “Amore mio” a Montepulciano nel 1970, comparivano nove mie foto, fatte da Ugo Mulas: era un’apparizione tv ante litteram. In quelle foto davo protagonismo al critico, davo corpo e erotismo a una figura accademica, che era poco più di un servo di scena. Prima di me c’era un analfabetismo espositivo, io ho creato la scrittura espositiva che è complementare a quella saggistica. Le opere, esposte in uno spazio fisico, si sostituiscono alle parole e si incontrano con il pubblico. Per via di una certa mentalità scolastica, per un’idea crociana e romantica del primato dell’artista, questa figura di critico non è sempre amata dagli artisti, io dico che l’artista è il mio nemico più intimo. Si vuole che il critico sia un taxi, ma io sono una Rolls Royce! ».

Nel Manifesto del Movimento Spaziale per la Televisione, che Fontana distribuisce nel 1952 durante una trasmissione sperimentale della Rai, l’artista afferma che “la televisione è per noi un mezzo che attendevamo come integrativo dei nostri concetti […] Noi spaziali trasmettiamo, per la prima volta nel mondo, attraverso la televisione, le nostre nuove forme d’arte, basate sui concetti dello spazio”. A distanza di tanti anni cosa ti fa pensare?
«L’artista crea la sua opera, ma l’artista e il critico insieme producono cultura. La tv nasce con un obiettivo economico e produttivo: è vincolata al test dell’audience. La Rai ha il dovere di fare programmi culturali perché è una tv pubblica. Spetta a lei, e non a Mediaset, impegnarsi culturalmente. Una mostra ha un pubblico più familiare: quello che frequenta i musei e le gallerie. Con la tv l’arte visita la pace domestica, entra inaspettata tra i rumori della vita familiare. Baudelaire diceva che “l’arte è la domenica della vita”. Io vado in onda di domenica, quindi …».

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