Categorie: Personaggi

L’intervista/Alice Zannoni e Martina Cavallarin | SetUp. Siete pronti?

di - 21 Gennaio 2013
SetUp, la figlia di Artefiera. O forse la nipote. Già, perché di fronte al “nuovo che avanza” e all’entusiasmo che trasuda dagli organizzatori di questa nuova realtà del panorama dell’arte bolognese, è un po’ come se la “vecchia signora” passasse in secondo piano. Perché SetUp si rappresenta come un organo di propulsione verso una fruizione forse anche più “quotidiana” dell’arte, dove non conta tanto chi si è, ma cosa si propone. E poi perché la location della nuova kermesse è a pochi passi dal centro, anche se in un luogo piuttosto difficile di Bologna, che con l’ingresso del “visivo” può essere riscattato, quantomeno nel periodo più intenso della città. Abbiamo rivolto ad Alice Zannoni (organizzatrice dell’evento insieme a Simona Gavioli e Marco Aion Mangani) e a Martina Cavallarin (nel comitato scientifico con Eugenio Viola, Valerio Dehò, Viviana Siviero e Antonio Arevalo), alcune domande. Per capire a quale obiettivo si punta e a che punto sono le aspettative per questo inedito progetto bolognese.
Siamo quasi al nastro di partenza. Quali emozioni? E quali preoccupazioni per questo nuovo esperimento? E soprattutto, che cos’è SetUp?
Martina Cavallarin: «SetUp è la sala chirurgica in cui applicare la rigenerazione fisioterapica alla muscolatura più atletica, energetica, propositiva, dalle visioni alternate e rigeneranti delle Arti Contemporanee. SetUp è un’identità rizomatica: il Rizoma è una radice che, a differenza degli alberi, ha un sistema di collegamento con i sistemi organici a-centrico e non gerarchico, orizzontale. Questa è l’apertura che mi auspico, le emozioni da trasmettere e ritrasmettere come un’unica “trasmissione morse” a getto continuo e senza soluzione di continuità».
Alice Zannoni: «Siamo ormai al traguardo: è il momento in cui, seppur manca solo il 10 per cento per arrivare alla fine, le energie da investire sono al 90 per cento, le emozioni sono somministrate più volte al giorno a diversi gradi di intensità, ma vissute in modo fugace perché non c’è tempo. SetUp è tutta un’emozione, proprio nel senso etimologico di “mettere in movimento”. È volontà di cambiare, coraggio di guardare al futuro, opportunità da coltivare».
L’autostazione. Un luogo da riqualificare, un pezzo di Bologna da vivere sotto altre vesti, un tentativo d’integrazione?
MC: «L’Italia è uno dei Paesi al mondo in cui si cementifica di più. Abbiamo qui un esempio di archeologia industriale recente, anni Settanta. È un posto di partenza e arrivo, spesso nucleo di aggregazioni furtive o di rifugiati senza nome. SetUp può dare respiro a un luogo del genere che si rigeneri sotto altra forma senza perdere l’identità, ma culla di bellezza e scambio, approccio e sguardo verso nuove visioni».
AZ: «Più che parlare di integrazione, preferiamo usare la parola “riscoperta”: la location ha delle fortissime potenzialità in grado di generare attrattiva e, per effetto centrifugo, di restituirla alla città: SetUp prova a qualificare l’identità di un luogo attraverso il consumo e la fruizione di cultura. Speriamo in un “effetto tendenza”».
Sono presenti giovani realtà più strutturate (e mi riferisco, per esempio, a Oltredimore o Sabrina Raffaghello, Fabbri C.A.) e spazi quasi neonati. Come è avvenuta la selezione? Diversità evidente o amalgama perfetta del contemporaneo?
MC: «Le diversità, le differenze, le contaminazioni sono per me l’amalgama necessario. L’arte non vive di stabilità, ma di contraddizioni ed è in quello spazio che trovo la domanda aperta e insoluta che spinge al progetto, all’opera. In fiera, nella natura della fiera, di tutte le fiere, c’è una sfrenata coazione all’esibizione; però se le proposte sono buone, come in SetUp, se si chiede di presentare un progetto come nel caso della sezione under 35, tutto resta sul piano della coazione all’esposizione: un passo più sano e più alto che forse gli artisti per primi dovrebbero imparare a distinguere senza cannibalizzare un sistema già colpevole».
AZ: «Faccio fatica a pensare alla realtà dell’arte contemporanea in modo uniforme e il cui discrimine di valutazione sia l’età delle entità che ne fanno parte. Per questo, per la selezione, non abbiamo preso in considerazione il “nome” delle gallerie, ma i progetti presentati secondo il format SetUp, chiedendo agli espositori di integrare, assieme agli artisti con cui lavorano da tempo, almeno un under 35 con cui non avevano avuto rapporti precedenti di collaborazione».
Di “The Others” avete l’orario serale e gli stand in uno spazio non convenzionale. Bologna quest’anno sembra più vicina a Torino anche per il format di Art City. Come vedete il panorama fieristico italiano?
AZ: «Il sistema fieristico italiano ha indubbiamente la necessità di andare al passo con i tempi e di avere il coraggio di passare le redini a favore di una visione meno geriatrica. I tempi non sono dei migliori, ma questo non può essere una giustificazione. Dovrebbe invece essere uno stimolo a fare meglio, a fare altro. Come in biologia: l’evoluzione implica la necessità del cambiamento».
Che cifre vi aspettate da questa prima edizione di SetUp? Avete fatto una stima possibile di ingressi e incassi? Uno sguardo sul pubblico?
AZ: «In media le fiere collaterali hanno un’utenza del 15/20 per cento dei visitatori della fiera madre, questo è un dato da prendere in considerazione; il tessuto di Bologna poi, è raccolto, e poco dispersivo, la location è in una posizione strategica: tutto questo ci fa pensare ad una buona affluenza. Pubblico ad ampio raggio, senza un target specifico di riferimento, giovani sopratutto, ma dai feedback che riceviamo non solo. E non mancheranno, inoltre, gli addetti al settore».
Anche a SetUp, così come ad Artefiera, il panorama degli espositori è in larga parte italiano. Strategia di mercato o volontà di un ritorno ai “prodotti locali” per rilanciarne anche l’economia?
AZ: «Semplicemente le risorse di una prima edizione non ci hanno permesso di pubblicizzare la fiera all’estero, nonostante ciò abbiamo la presenza di espositori da Parigi, Bruxelles e Belgrado. In ogni modo il distinguo locale/globale in arte non ha molto senso, se preso a maglie larghe come una fiera. Suggerisco di aprire il ventaglio dell’accoglienza senza nulla togliere alle gallerie e associazioni italiane che hanno dimostrato di essere eccellenti».
Cosa ha significato dal punto di vista pratico, economico, di partner e sponsorship, mettere in piedi una nuova fiera dal nulla?
AZ: «Nell’atto pratico: notti insonni, lavoro no stop, sabati e domeniche inesistenti, relazioni continue, pazienza, perseveranza, coraggio, la capacità di non fermarsi davanti ad una porta chiusa, una certa dose di follia. Per mettere in piedi un progetto di questo tipo bisogna crederci per primi diventando contagiosi e condividendo l’energia: l’unica vera risorsa è la passione».

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