06 novembre 2012

L’intervista/ Andrea Rurale FAI riscrive la cultura. E comincia dall’Università

 
In collaborazione con dodici istituti milanesi, FAI lancia una serie di appuntamenti dedicati agli studenti degli atenei. Perché sono gli unici a poter rilanciare il nostro Paese. Attraverso una vera fruizione della cultura, che non sia il solito refrain politico dell'oro inutilizzato della Penisola, ma che diventi condizione concreta per lo sviluppo. Ne abbiamo parlato con Andrea Rurale, Capodelegazione FAI di Milano

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Università degli Studi, Iulm, Cattolica, Bocconi, NABA e Conservatorio sono solo alcuni dei dodici “attori” universitari di Milano che hanno prestato il fianco al FAI, in un nuovo progetto che mira, attraverso la città e il coinvolgimento di tutti gli studenti dei suoi atenei, a porre un nuovo accento sulla necessità di fruire, con trasparenza e impegno, la ricchezza dei beni culturali del nostro Paese. In relazione anche alla società, ai suoi protagonisti e ai suoi tesori, anche scomodi. Da Villa Necchi Campiglio, dove gli studenti incontreranno Ilda Boccassini, al Carcere di San Vittore, dove si terrà un concerto di Natale per i detenuti, ecco che FAI e Milano si aggregano in “un’alleanza per salvare l’Italia”. Ancora un’ultima chiamata, raccontata ad Exibart con pieno ottimismo da Andrea Rurale, docente all’Università Bocconi e Capodelegazione FAI di Milano.
Partiamo dal progetto: come è nata la volontà di unire FAI e le Università di Milano?

«Obiettivo del FAI è prendersi cura del patrimonio artistico e ambientale italiano. Lo fa da 37 anni e sebbene siano stati raggiunti importanti risultati (25 beni aperti al pubblico, 9 in restauro e 14 tutelati) per proseguire nell’attività è necessario che le giovani generazioni condividano l’importanza di quello che facciamo, che aumentino le iscrizioni e le donazioni private e che la diffusione del FAI sia ancora maggiore in tutta Italia. Va poi detto che il FAI indubbiamente è percepito come una Fondazione ricca, elitaria e appannaggio di pochi, distante dai più giovani. Si tratta di una percezione per molti versi errata ed è pertanto necessario cambiarla e nessuno meglio degli studenti universitari ci può aiutare a fare questo. 37 anni fa con il FAI è nato con l’obiettivo di portare in Italia l’esperienza del National Trust che dal 1885 rappresenta un asset del patrimonio culturale britannico e conta oggi tre milioni e mezzo di iscritti, mentre il FAI oggi ne conta quasi novantamila. Se si considera che la popolazione delle due nazioni è molto simile, risulta chiaro come l’indice di penetrazione del National Trust sia di gran lunga superiore a quello della Fondazione Italiana».

Balza all’occhio una grande esclusa dalle istituzioni: l’Accademia di Brera, attualmente impantanata tra cambi di direzione e traslochi all’orizzonte. Cosa manca per un riscatto dei beni culturali milanesi, Pinacoteca in primis?
«L’assenza dell’Accademia di Brera mi auguro sia solo temporanea, in quanto proprio per lungaggini e burocrazie interne all’istituto la sua partecipazione al nostro progetto non è mai stata deliberata. Non potevamo aspettare oltre e siamo partiti senza Brera, ma contiamo di riagganciarla in corsa, perché rappresenta un istituto storico e importante per Milano e nell’ottica di un coinvolgimento dei giovani universitari intorno ai temi propri del FAI, come per esempio il restauro, la collaborazione dell’Accademia è fondamentale. Una delle malattie croniche dei beni culturali, e quindi  di cui soffrono anche i beni culturali milanesi, è l’eterna contrapposizione tra l’anima culturale e quella più manageriale e gestionale. Non trovando accordo tra loro le due anime configgono e portano a regredire, anziché essere un tandem di successo. Chi conosce la storia dell’arte e vuole passare la vita a studiare e fare ricerca non può essere chiamato ad amministrare e a gestire, a fare i conti con gli standard museali, la sostenibilità di un museo, l’elaborazione di un progetto per un finanziamento europeo o la definizione delle sponsorizzazioni con aziende e privati. Per questi compiti ci vogliono manager, che tuttavia siano consapevoli di non improvvisarsi storici dell’arte e inventarsi mostre e percorsi museali irrispettosi e filologicamente insostenibili. Ci vuole umiltà e rispetto delle competenze altrui».

Con questo progetto il FAI dimostra ancora una volta di essere un attento attore del territorio: l’iniziativa milanese potrà essere esportata in altre realtà italiane?
«Me lo auguro, certamente. Il FAI conta 115 delegazioni in tutta Italia e nei territori di molte di queste sorgono importanti atenei. Quello che rende entusiasmante la nostra esperienza è che sono gli stessi ragazzi, che pochi mesi fa si sono avvicinati al FAI e hanno iniziato ad attivarsi nella Delegazione come volontari, ad avere suggerito  le Università come luogo adatto per condividere la passione del FAI e dove “reclutare” nuove menti, nuove forze e nuovi stimoli per avvicinare il FAI ai più giovani».

La condivisione della cultura e della giustizia sono le armi per il riscatto di un Paese come l’Italia. Quanto può fare l’associazionismo in questi casi? Si tratta di ripiantare i semi di un mondo che è stato in qualche modo completamente raso al suolo o è necessario cambiare la prospettiva dello sguardo?
«Di lavoro da fare ce n’è, e l’associazionismo può indubbiamente fare molto. Persone perbene, giovani motivati, gente corretta ed equa non sono eccezioni. Bisogna solo trovare il modo di dare loro spazio, fare emergere le potenzialità che chi ha 20, 30 e 40 anni ora non riesce ad esprimere».

Vi saranno altri appuntamenti nel 2013, dopo quelli di Novembre e di Natale?
«Certamente. L’idea è proprio quella di proporre appuntamenti non solo per appassionati di arte e cultura, ma di coinvolgere gli atenei che hanno patrocinato l’iniziativa anche con incontri, visite speciali ad ambienti che non hanno un’attinenza diretta con il patrimonio artistico. Il Conservatorio proporrà altri concerti nella Casa circondariale di San Vittore, dove la popolazione detenuta assisterà allo spettacolo e illustrerà ai giovani il braccio dismesso del carcere. Ilda Boccassini si presenterà ai giovani in un incontro lontano dalla stampa, dalla mediazione di giornalisti e avvocati. Facoltà di economia, medicina, architettura e lingue proporranno altri appuntamenti che verranno selezionati e proposti esclusivamente ai 150mila studenti milanesi».
 
Come docente, come vede gli studenti di oggi, principali destinatari di questo progetto? 
Sono straordinari, hanno voglia di dimostrare che alla crisi c’è rimedio, che alla deriva dei valori loro non vogliono prendere parte, che per risalire la china bisogna impegnarsi direttamente. Ovviamente non sono tutti così, ma la gran parte degli studenti con cui ho a che fare è animata da passione e frenesia di entrare nel mondo e dare un contributo concreto per il suo miglioramento. Gli studenti di oggi hanno una prospettiva straordinaria con la quale guardano i problemi. I mezzi di comunicazione e interazione sono completamente diversi rispetto a quelli utilizzati solo dieci anni fa».

Lei insegna all’Università Bocconi: il binomio Arte ed Economia è stato in questi mesi spesso usato (e abusato) come refrain per la ripartenza del Belpaese. Ha qualche esempio intorno al quale si potrebbe iniziare ad operare, in senso molto concreto? 
«Che l’arte e la cultura producano effetti positivi sul benessere dei cittadini è indubbio ed è un ambito ampiamente studiato in letteratura. Le ricadute economiche di interventi di tutela e valorizzazione del patrimonio artistico sono altrettanto evidenti. Quello che manca è la capacità di lavorare insieme, di mettersi in rete e di contribuire ciascuno per la propria parte. Si è convinti che lavorare in team con altre istituzioni culturali voglia dire perdere il proprio spazio di influenza e di potere. Esempi di scempi dove l’incapacità di lavorare insieme ha prodotto disastri ce ne sono molti, la Reggia di Caserta non ha potuto ospitare un convegno internazionale perché non in sicurezza, un’occasione mancata per mostrare al mondo le bellezze italiane; la proprietà della Villa Reale di Monza è divisa tra il Comune, la Regione e il Ministero delle Attività Culturali con dibattiti infiniti che l’hanno tenuta per anni in totale degrado; Pompei richiama migliaia di visitatori ogni anno, sebbene non sia tutelato adeguatamente e non si è ancora pensato a un modello di gestione ottimale, magari prendendo come esempio la situazione di Ercolano a pochi chilometri di distanza, con un diverso modello gestionale, più efficiente e adeguato ai tempi. C’è poi il discorso dei beni culturali religiosi: l’enorme valenza culturale e di conseguenza turistica di chiese come Santa Maria presso San Satiro, la cripta del Tempio del Santo Sepolcro presso la Biblioteca Ambrosiana o la Certosa di Garegnano, per rimanere nel territorio milanese, non possono non essere considerati beni turistici a tutti gli effetti e sarà sempre più necessario abbandonare inutili laicismi e pensare al patrimonio artistico in senso lato».

Uno sguardo su Milano: cosa manca e cosa invece possiede a livello di intellighenzia culturale, sociale ed anche finanziario la città? Come vede il prossimo futuro, anche in relazione ad Expo 2015?
«Milano è grande, in passato ha sempre espresso una popolazione laboriosa e attenta. Ci sono tutte le caratteristiche, prese singolarmente, per essere in grado di rappresentare eccellenze in occasione dell’Expo nel 2015. Ma per ora si arranca ancora nel riconoscere al progetto un ruolo di coordinamento effettivo e non solo formale. La governance dell’Expo ha risentito a tal punto delle fluttuazioni politiche che nella voragine nella quale la classe politica è caduta di recente temo finisca pure l’intero progetto, proprio perché sua diretta espressione. Io sono comunque e sempre ottimista proprio perché nei più giovani c’è la voglia di dimostrare che si può cambiare rotta e che attraverso il riconoscimento di valori direttamente indirettamente collegati con la tutela del nostro patrimonio, sia esso artistico, culturale o ambientale, l’Italia potrà essere un paese migliore».

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