Categorie: Personaggi

L’intervista/Andrea Viliani | Un piemontese a Napoli. Felice

di - 21 Dicembre 2012
12-12 2012, direi che una data più topica di questa non potevi averla, doveva finire il mondo e invece siamo qui a parlare di un inizio. «Sì, il marketing maya non è male». Comincia così il colloquio con Andrea Viliani, 39 anni, nominato esattamente una settimana fa, venerdì 14 dicembre poco prima che si inaugurasse “Sol Lewitt. L’artista e i suoi artisti”, direttore del MADRE. Fuori, a Napoli, dove è lui, e a Roma, dove sono io, il traffico natalizio impazza. Alla faccia delle apocalittiche previsioni, ormai svanite. Questa è la sua prima intervista che rilascia da direttore.
Prima di tutto, immagino che tu sia contento. Ma quanto?
«Sono molto contento, molto felice ed orgoglioso. Ma anche consapevole del ruolo impegnativo che assumo per la fiducia che ha raggiunto il museo, che però ora si trova davanti nuove sfide, proprie di una società molto cambiata negli ultimi anni. E cambiata quindi anche da quando il MADRE ha aperto».
A che cosa ti riferisci?
«La sfida che tutto il mondo dei musei oggi si trova davanti è riuscire a garantire l’altissima qualità dei progetti cui siamo abituati con risorse minori. Dobbiamo rivedere gli strumenti del management e del marketing, ma soprattutto lavorare a un uso creativo delle idee».
Problemi economici, quindi?
«In Italia il MADRE è uno dei musei che gode di maggiore garanzia finanziaria, è uno dei più fortunati, quindi, anche per lo sforzo fatto dalle Istituzioni pubbliche. Ma questo non ci esenta da una gestione il più possibile oculata».
Qual è il budget di cui dispone?
«La cifra esatta viene definita nel Consiglio di Amministrazione dove andrò appena finito di parlare con te e non vorrei dare anticipazioni che potrebbero rivelarsi inesatte. Posso dire comunque che è cospicuo».
Per chiudere con il capitolo finanziamenti e gestione, come sono attualmente i rapporti con Scabec, la società che assicura i servizi del museo?
«Al momento non mi preoccupa. Eredito un museo all’interno di una struttura, la Fondazione Donnaregina, che avrà modo di definire al meglio i rapporti tra lo stesso museo e la società di servizi Scabec, passando anche attraverso una fase di studio».
Ti preoccupa, invece, o ti mette a disagio, il fatto che la tua nomina fosse data quasi per scontata. Si diceva: se è un italiano è Viliani, altrimenti sarà uno straniero.
«No, e colgo l’occasione per ringraziare la Commissione giudicante per avermi indicato prima come finalista e poi come direttore. La Commissione, che ora riveste la carica di Comitato Scientifico del museo, era di altissimo livello e ha lavorato sulla base di procedure concorsuali inedite e assolutamente trasparenti. Parte del merito, quindi, e per questo lo ringrazio, va al MADRE stesso per aver dimostrato che, anche in Italia, è possibile realizzare pratiche buone e trasparenti ed esprimere grande qualità. Infine, sono stato molto felice di condividere l’essere stato scelto con quattro persone che apprezzo e di cui sono amico».
Uno dei tuoi punti di forza è stata la partecipazione a dOCUMENTA (13). In Italia siete solo due curatori a poterla mettere in curriculum: tu e venti anni fa Pier Luigi Tazzi. Quanto ha contato per te questa esperienza e che cosa hai imparato?
«Ha contato moltissimo e penso di aver imparato moltissimo. Essere stato parte di un progetto ideativo, espositivo così concentrato sui metodi di ricerca, con la consapevolezza di essere parte di un centro di riflessione delle pratiche della mostra, della pubblicazione, è stata un’esperienza fondamentale. Tutto questo ha sicuramente contato nella mia candidatura per il MADRE. Ma la cosa più importante è stata la mia esperienza a Kabul, di cui ho curato la fase ideativa e dove ho realizzato dei seminari. Lavorare in una realtà lontana dalla centralità del palcoscenico di Kassel, fuori della normale routine, mi ha fatto capire la necessità di non dare niente per scontato, impegnandomi nel costruire le relazioni, facendo un’opera di riscrittura e di eliminazione degli stereotipi associati a eventi che si celebrano fuori. Mi riferisco soprattutto al rapporto con le istituzioni culturali afgane che negli ultimi anni hanno subito pressioni fortissime, sono state danneggiate, a volte distrutte e questo ha obbligato a trovare modalità di relazione diverse. Posso dire che mi sono innamorato del lavoro con le istituzioni, cosa che oggi, per esempio, mi consente di parlare con passione del MADRE. Poi ho avuto la possibilità di lavorare con i migliori artisti, i migliori curatori, studiosi di altre discipline, l’avere accesso ai network internazionali. Un’esperienza del genere fa sì che, quando si torna in Italia, si è fortemente ricaricati e depurati».
A proposito del contesto, Napoli è una città molto connotata per l’arte contemporanea con una vocazione e una storia internazionali. Il MADRE è stata un’eccellenza, ma non ha stretto un rapporto forte con il territorio. Sarà un problema, specie per uno “straniero” come te?
«Il MADRE nasce all’interno di una rete di relazioni che hanno determinato il contesto della città che hai tratteggiato: il contemporaneo è radicalmente compenetrato a Napoli e in Campania. E la dimensione locale è già intrecciata a quella internazionale, bisogna continuare su questa strada. Credo nel lavoro di rete e di sinergie per fare sì che il MADRE diventi capofila di progetti che sono metropolitani, regionali, extraregionali – una rete dei musei e centri d’arte del Sud, cui si parla – mediterranei ed europei».
Ma di che cosa ha bisogno oggi il MADRE? La collezione è decimata, il museo è riuscito ad averla grazie ad una presenza come quella di Mario Codognato che è stata elemento di garanzia per tanti collezionisti che hanno dato al museo opere in prestito e in comodato d’uso. Pensi di poter svolgere lo stesso ruolo?
«La collezione è il punto forte di un museo e nel caso del MADRE va valorizzata e incrementata. Ma, al di là del rapporto con i collezionisti con cui ogni museo deve lavorare, è importante ribadire che la collezione è un bene pubblico. In questo senso il MADRE dovrà lavorare sull’identità della collezione, avendo presente che, sebbene questa possa essere realizzata in vari modi, è in gioco l’identità stessa del museo che è prioritaria rispetto al rapporto con i collezionisti. E per costruire un’identità forte non lavorerò da solo, intendo avvalermi di figure competenti a cominciare dal Comitato Scientifico. Non farò niente senza di loro, è il punto di forza del museo e insieme avvieremo attività di ricerca e di studio, senza dimenticare il territorio che ha passato e competenza non solo nella sfera artistica».

Come hai reagito al fatto che AMACI non abbia emesso nessun comunicato per congratularsi con te?
«Il MADRE non fa parte di AMACI».
Non conterà forse anche l’esperienza di Trento? Tu sei una figura forte dal punto di vista curatoriale, hai lavorato al Castello di Rivoli e al MAMbo, ma la direzione della Galleria Civica non è stata un successo.
«Ti ringrazio di questa domanda perché mi dà l’occasione di chiarire alcune cose. Sono stato nominato direttore della Galleria Civica di Trento quando non era ancora diventata Fondazione e dopo ho lavorato con questo modello, peraltro inedito in Italia. In quel periodo sono iniziati i tagli di budget, non decisi da me ovviamente e poi i tagli alla cultura che hanno toccato tutti i Comuni, Trento compresa. Quando alla Civica è stato annunciato un forte taglio, prospettando l’ipotesi di trasformarla in un settore di attività del Mart, sono stato d’accordo nel chiuderne un capitolo per aprire una nuova stagione. So che il tutto non è sempre stato accolto bene, ma si tratta di modelli gestionali frequenti invece all’estero: un esempio per tutti, il MoMA e il PS1 a New York. E posso dire ora con piacere che negli stessi giorni in  cui si decideva la direzione del MADRE, veniva ratificata la convenzione che trasferisce l’attività della Civica all’interno del Mart. Quindi, rivendico il merito del fatto che la Galleria Civica di Trento continui ad esistere».

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