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09
maggio 2017
L’INTERVISTA/ CECILIA ALEMANI
Personaggi
VOCI NELLA POLIFONIA DEL CONTEMPORANEO
Viaggio nella mostra più attesa della Biennale, quella del Padiglione Italia, in compagnia della sua curatrice
Viaggio nella mostra più attesa della Biennale, quella del Padiglione Italia, in compagnia della sua curatrice
L’inaugurazione ufficiale sarà venerdì, alle 12, ma già da stamattina gli addetti ai lavori potranno scoprire “Il mondo magico”, titolo del progetto di Cecilia Alemani per il Padiglione Italia alla 57esima Esposizione Internazionale d’Arte che presenta le opere di Giorgio Andreotta Calò, Roberto Cuoghi e Adelita Husni-Bey.
Ispirato dall’omonimo libro dell’antropologo napoletano Ernesto de Martino (1908-65), pubblicato subito dopo la Seconda Guerra Mondiale e dedicato allo studio della magia come strumento attraverso il quale varie culture e popolazioni reagiscono a situazioni di crisi e all’incapacità di comprendere e dare forma al mondo, i progetti in scena sono stati appositamente commissionati e prodotti per il Padiglione. Una scelta di campo che si discosta dalle precedenti edizioni, e che vuole essere una “voce intonata” nella polifonia delle partecipazioni nazionali in laguna, come ci spiega la curatrice.
Inizio con una affermazione/provocazione: questa è la Biennale degli Sciamani?
«Non so se la definirei così, ma sono felice e sorpresa che vi siano anche delle sovrapposizioni con la mostra della Macel che non erano assolutamente volute, anche perché non sapevamo nulla né del tema, né che vi fosse il “Padiglione dello Sciamano”. Per me il mondo magico non è solamente legato allo sciamanesimo, ma c’è anche un riferimento alla storia dell’arte italiana recente, partendo dagli anni ’60, da Boetti a Carol Rama, da Beyus a James Lee Byars, che hanno messo in atto un racconto del mondo che si allontana da un concetto più documentaristico verso quello che è l’immaginario fantastico».
Mi hai citato molti nomi che la generazione degli artisti 30enni di oggi guarda con un interesse quasi morboso
«Sicuramente, e guardando agli artisti del Padiglione Italia l’artista più sciamano è Roberto Cuoghi nel senso che da sempre è interessato a una visione metamorfica dell’identità: pensa ai progetti recenti, come quello dello scorso anno in Grecia, dove ha cotto le sue sculture in alcuni forni con un’azione molto ritualistica. Adelità Husny-Bey che è la più giovane del gruppo e forse quella che in realtà può apparire più lontana da questa tradizione, più legata al “sociale”, ha invece la capacità di rileggere il presente in modo molto diverso da quello che, negli ultimi due decenni, si è fatto per esempio con la video arte, avvicinandosi a risultati che vanno molto oltre tanti “reportage”, ma mantenendo la stessa profondità».
Ho un letto una tua vecchia intervista: dicevi che questo progetto è nato a marzo 2016
«Sì, è giusto. Franceschini mi ha dato l’incarico il 24 aprile 2016».
Quindi era un progetto di studio che portavi avanti da diverso tempo?
«Sì, gli studi su Ernesto De Martino e il mondo magico in genere mi hanno sempre appassionato. Non ti dico che questo progetto di mostra lo avessi in mente da tanto, anzi, è stato quasi creato ad hoc, ma sicuramente questa indagine alla sfera antropologica e filosofica sì».
Qualcosa sui lavori del Padiglione?
«Come sai lo spazio è gigantesco: sono quasi 2mila metri quadrati. Ogni artista ha il proprio ambiente, e abbiamo chiesto di rispettarne l’architettura, che è una delle cose che mi hanno stupito di più. Negli anni passati l’estetica originaria del Padiglione è stata completamente trasformata, e così abbiamo cercato di non “combattere” questo spazio monumentale, con un allestimento non invasivo. Si inizia con Cuoghi che occupa la prima navata con una grande installazione che ha anche una parte performativa, e che inaugura un capitolo della sua produzione completamente inedito, dove userà tecnologie molto avanzate per la scultura. Venezia è il primo step per scoprire questo nuovo percorso molto sperimentale. Roberto è stato forse colui che ha preso più alla lettera “Il mondo magico”. Nella seconda tesa Husny-Bey, con un video girato a New York, co-creato con un gruppo di adolescenti, che presenta anche un gruppo di sculture, di oggetti di scena. Infine Calò, che è l’artista che sta lavorando da più tempo a un progetto che è un’installazione gigantesca, combinando sia il site specific che la città di Venezia».
Quando si dice “lavorare con l’energia dello spazio”…
«Sì, forse si sentirà meno nel lavoro di Adelita, perché per molti mesi non è stata a Venezia, ma il suo allestimento è molto rispettoso della tesa, ed è forse quello dei tre che più crea un’atmosfera magica, suggestiva».
Sai che hai addosso una grande responsabilità, vero? Sei la prima, dopo anni, che ha scelto un numero ridottissimo di artisti
«Non capisco esattamente perché in passato i miei colleghi abbiamo radunato così tanti nomi. Penso, nel caso della Biennale, che dobbiamo essere nella condizione di permettere agli artisti di fare il lavoro più bello della loro vita. Se non c’è questa possibilità il tempo, lo spazio e le risorse date non valgono il lavoro che viene presentato: non per forza bisogna riflettere sulla cosiddetta “identità italiana”, ma avere una voce nel coro polifonico delle partecipazioni nazionali senza stonare. Questo sì».
Secondo te l’arte in questo momento ha bisogno di magia? Ha bisogno di uscire dai vari post-media, minimal, internet e affini?
«Penso che oltre a una necessità sia anche un dato di fatto. Tanti artisti si oppongono alla lettura del mondo che ne ha dato Okwui Enwezor alla scorsa biennale, a mio avviso freddo e più razionalista. Quello che mi interessa è arrivare agli stessi risultati con uno sguardo più umano e profondo: è importante catturare questo momento, con personalità che vivono – tra l’altro – in spazi un po’ più “segreti”».
Parliamo di cifre? Oltre alla sponsorizzazione di Fendi ci sono stati altri donors?
«Abbiamo raccolto circa 600mila euro. Il budget iniziale stanziato corrisponde a 400mila euro (per la mostra) più 200mila (per la manutenzione), ma sono soldi che non bastano indipendentemente dalla mostra che si faccia, perché lo spazio è immenso e vi sono costi di gestione esorbitanti. Metà del mio lavoro è stato cercare soldi, ed è stata una grande fatica, e avendo solo tre artisti dopo un po’ è stato necessario essere creativi anche nel fundraising, visto che nessuno è rappresentato dalle gallerie più ricche e potenti del mondo».
Matteo Bergamini
Sopra: Roberto Cuoghi, Imitazione di Cristo, 2017, Installation view at Padiglione Italia, Work in progress, 9 maggio 2017, 57. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia. Ph. Marco De Scalzi
In home page: Cecilia Alemani, Ph. Marco De Scalzi