Categorie: Personaggi

L’INTERVISTA/CECILIA ALEMANI

di - 3 Maggio 2016
Come sarà il Padiglione Italia alla prossima Biennale di Venezia? Prematuro fare dichiarazioni, anche se da questa parte del globo, c’è già chi giura di conoscere gli artisti che verranno portati in scena in laguna nel 2017. Di certo si tratterà di una prova decisamente importante, ma a proposito di curatele siamo qui per parlare di Frieze Projects, la stelletta culturale della frizzante fiera newyorchese che debutta il prossimo 4 maggio a Randalls Island, a Manhattan. Ne abbiamo ripercorso con Alemani, alla guida della sezione dal 2012, i temi e la storia, uscendo anche dalla fiera e volgendo lo sguardo alla Grande Mela, che in fatto di Arte Pubblica, come spesso abbiamo rimarcato, non è mai stata seconda a nessuno.
Che importanza ha, per una fiera d’arte contemporanea  di serie A come è Frieze, un programma “collaterale”?
«Frieze Projects è parte della sezione non-profit della fiera, che include, oltre ai progetti speciali che curo io, anche un programma di educazione e di conferenze.
Penso sia una piattaforma molto importante perché fornisce strumenti interpretativi ai visitatori, e si rivolge a un pubblico che non viene in fiera necessariamente per comprare, ma anche per imparare e per vedere progetti che normalmente non si potrebbero vedere in questo contesto».

Nelle ultime edizioni il successo di “Projects” sembra cresciuto esponenzialmente: il pubblico ha bisogno di potersi fare coinvolgere, dopo la fruizione più passiva delle opere in fiera?
«Penso che Frieze Projects offra un’alternativa a quello che si trova normalmente negli stand: spesso i progetti includono installazioni interattive o performance. C’è un aspetto partecipativo in alcuni dei progetti, ma anche un intento a volere interrompere il ritmo con cui un visitatore normalmente visita la fiera. Penso anche che Frieze NY sia diventato un evento culturale che va oltre la sfera ristretta dell’arte contemporanea: soprattutto il weekend si vedono famiglie e un pubblico di non addetti ai lavori che vengono alla fiera perché sanno che si tratta di un evento culturale importante dove possono vedere arte ma anche passare una giornata in un bellissimo parco e, perché no, anche divertirsi».
Come vengono scelti, e perché, gli artisti proposti?
«Normalmente approccio un gruppo di 5-7 artisti il cui lavoro penso possa funzionare bene in questo contesto. Spesso lavoriamo con artisti che non hanno avuto una grande visibilità prima a New York: il gruppo di quest’anno ne è esemplare».

Il 2016 sarà la quinta volta di Frieze a New York. Come pensa evolverà la fiera, vista la rimonta di Armory?
«Frieze cambia ogni anno e si adatta alle diverse richieste e necessità del pubblico: per esempio a Frieze, oltre ai progetti speciali, ci sono tante sezioni curate, che facilitano la visita offrendo presentazioni monografiche come in Spotlight o Frame».
Ci racconta un po’ dei progetti di quest’anno? Cosa dobbiamo aspettarci dall’intervento di Maurizio Cattelan dedicato alla galleria Newburg, per esempio?
«Il progetto di Maurizio Cattelan fa parte della serie dei tributi, che abbiamo inaugurato durante la prima edizione di Frieze NY: uno dei progetti speciali è sempre dedicato a un omaggio a uno spazio non profit, una galleria o un progetto d’artista del passato, che ha cambiato radicalmente il modo in cui pensiamo all’arte contemporanea. Quest’anno il tributo è alla galleria Daniel Newburg, che ha aperto nel 1984 a Tribeca per poi spostarsi a Soho. Daniel ha dato visibilità a molti artisti europei che a New York non avevano mai fatto mostre, come Rudolf Stingel, John Armleder e anche lo stesso Cattelan, che fece lì la sua prima mostra americana. L’artista lasciò lo spazio completamente vuoto, se non per appendere un candelabro sotto il quale stava un asinello. L’installazione non durò molto, infatti venne chiusa dopo neanche 24 ore. Mi interessava questa mostra perché è uno di quei progetti che tutti conoscono ma che nessuno in realtà ha visto con i propri occhi».

I “Projects” hanno una dimensione molto pubblica, per loro stessa natura. Anche in base alla sua esperienza alla High Line, e guardando all’eccellente programma di Public Art che diverse associazioni e fondazioni promuovono a New York, pensa si potrebbe migliorare/cambiare/diversificare qualche modalità espositiva nel tessuto metropolitano?
«Penso che l’Arte Pubblica sia una componente essenziale del tessuto urbano: New York ne è capitale da tanti anni, ma è sempre bello vedere più e più esempi di città che la abbracciano. È anche molto interessante vedere come il concetto stesso di arte pubblica sia cambiato, passando da sculture monumentali e tradizionali a una nozione di Arte Pubblica che contiene in sé anche performance e installazioni più concettuali. Penso che il successo dell’Arte Pubblica stia nella bravura e creatività degli artisti, che si rivolgono alla città come una gigantesca tela o piedistallo da usare in modo creativo».
Matteo Bergamini

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