Sarà per il momento storico, ma la mostra “Istanbul, passione, furore, gioia” che si è aperta ieri sera al MAXXI di Roma tocca nel profondo. È densa e racconta con energia la realtà di Istanbul, privilegiando linguaggi immediati come la fotografia e il video e concentrandosi su alcune installazioni che presentano il tutto con efficacia e anche ironia, sebbene amara ironia. Abbiamo scelto di farcela raccontare dalla curatrice Ceren Erdem, che incontriamo al caffè del MAXXI rumoroso come le sale dell’esposizione attraversate da molto frastuono. Quasi come una piazza festosa e vociante, come piazza Taksim, dove avvennero le proteste nel 2013, e il cui spirito sembra pervadere la mostra. Ma girando tra le sale si avverte anche la cupezza e il pessimismo di una città, e di un Paese che stanno attraversando tempi piuttosto oscuri. E noi con loro. È per questo che Istanbul non è più la città lontana, esotica porta d’Oriente, ma è qui, intorno a noi, e quello che sta succedendo laggiù ci riguarda tutti. Come ci racconta Ceren, lo sguardo stanco ma forte, più che di una curatrice d’arte, di un’attivista politica.
Ceren, ci racconti come è nata l’idea di questa mostra?
«Sono stata coinvolta nel team curatoriale grazie a Hou Hanru, insieme al quale avevo lavorato alla Biennale di Istanbul del 2007, dove ebbe la prima idea per questa mostra. Quella biennale era focalizzata su alcuni aspetti sociali e politici globali che costituiscono l’ossatura della mostra attuale. Hanru conosce Istanbul molto bene: non solo ha curato la Biennale, ma è stato a Istanbul molte volte prima e dopo, e ha una buona comprensione della città e della Turchia, in termini di strutture sociali, politiche, urbane, e di come cambiano nel tempo. Se vogliamo dire chi ha disegnato il telaio concettuale dell’operazione, di certo quello è Hanru».
Com’è la scena dell’arte contemporanea in Turchia e a Istanbul?
«Questa è una domanda difficile! Istanbul è internazionalmente un centro d’interesse, non solo turisticamente, ma anche per via della posizione strategica della Turchia nella regione, il suo ruolo nelle vicende politiche, ed è di certo una città storica, bella, e dunque inevitabilmente un polo d’attrazione. E in termini di arte contemporanea negli ultimi 15/10 anni c’è stato un boom, fenomeno di sicuro connesso con il nuovo governo e con l’afflusso di capitali stranieri nel Paese, divenendo Istanbul un nuovo centro d’attrazione finanziario e commerciale. Molte nuove gallerie hanno aperto a Istanbul, non solo turche ma anche succursali di gallerie internazionali, ma la cosa non è durata a lungo perché Istanbul, e la Turchia in generale, non hanno un grande mercato commerciale e il collezionismo di arte contemporanea è una realtà relativamente nuova. D’altra parte noi non abbiamo un museo statale che comprenda arte moderna e contemporanea, perché il museo più grande, che è il Museo di Scultura e Pittura di Istanbul (Resim ve Heykel Müzesi) è stato chiuso per molti anni e ora lo stanno ricostruendo, così ora non c’è accesso alla collezione di arte turca moderna. Poi abbiamo l’Istanbul Modern e il Museo Sabanci, ma istituzionalmente manca una forte infrastruttura che possa nutrire la scena artistica. Ovviamente abbiamo importanti istituzioni private come SALT, e alcune gallerie locali stanno insistendo su una programmazione artistica di qualità.
Però non esiste un meccanismo strutturato di organizzazione e supporto alla scena artistica, mentre gli artisti sono molto entusiasti e attivi, e molti hanno eventi nei maggiori musei e gallerie europei. Ci sono poi molte visite di curatori, anche per via della Biennale di Istanbul che è una grande risorsa non solo per gli artisti, ma anche per i giovani e per gli appassionati d’arte, e questo porta molto interesse verso la città e crea circolazione. Negli ultimi anni, c’è una iniziativa molto interessante che si chiama SAHA, un’associazione creata da alcuni collezionisti, la cui idea è promuovere all’estero l’arte contemporanea tramite borse e residenze».
Gli artisti sono tutti di Istanbul?
«No, non tutti. La maggioranza vive e lavora a Istanbul, anche se non tutti vi sono nati o cresciuti, e una parte viene da Diyarbakır. Ci sono anche alcuni artisti italiani o filmakers che hanno realizzato il loro progetto in Istanbul. L’idea era avere cose su Istanbul o inerenti gli argomenti che abbiamo trattato nella mostra, ma non era rilevante che gli artisti fossero di Istanbul».
Come si connette Istanbul alla spinosa situazione geopolitica, al cui centro si trova suo malgrado la Turchia in questi giorni?
«Alcuni aspetti di cui trattiamo nello show non sono specificamente riguardanti Istanbul. Ad esempio l’identificazione urbana in certe zone del Paese, certi gruppi di minoranze o le migrazioni, riguardano una regione più vasta. In un certo senso c’è molta relazione con la corrente situazione politica globale. Metà della popolazione si sente oppressa e l’altra metà che vota per AKP, il partito di Erdogan, non sente questo sentimento di soffocamento, e si è creata una polarizzazione in realtà favorita dalle politiche di governo e da tutti i conflitti interni, soprattutto vicino al confine con la Siria. Mentre preparavamo la mostra, la scorsa estate, in giugno, prima delle elezioni, una bomba è esplosa durante un comizio del partito pro-curdo HTP a Diyarbakır. E poi c’è stata la bomba a Suruç, vicino al confine, dove un attacco suicida ha colpito, facendo più di 30 vittime, un gruppo di giovani che stavano pianificando la ricostruzione di un asilo e una biblioteca in una città oltreconfine appena riconquistata all’ISIL dai ribelli curdi. Infine a ottobre c’è stato il doppio attacco a Ankara, dove due suicidi si sono fatti esplodere facendo 102 vittime. Di certo c’è l’aspetto dei conflitti interni che si mescola con quello che sta succedendo nel sudest della Turchia, su entrambi i lati del confine».
E in che modo Istanbul, come emerge dalla mostra, ha un ruolo cruciale in questo?
«Penso che sia importante parlare di Istanbul, così come delle altre città della Turchia, non tanto riguardo a questioni economiche più ampie, ma in un senso molto più quotidiano e personale. Quando si cammina per Istanbul, come per altre città della Turchia, non si possono ignorare i rifugiati siriani per esempio, dormono per terra, per le strade, ovviamente molti non vogliono vivere nei campi vicino alla frontiera, sai è una questione difficile la transizione verso l’Europa, però altri che se lo potevano permettere hanno comprato appartamenti, si sono ambientati nei quartieri, è una questione molto complessa, perché si hanno migranti con diversi redditi, per cui Istanbul è diventata un polo di attrazione turistica per i Paesi petroliferi più ricchi, e così vedi sia i turisti ricchi girare per le strade, sia i siriani dormire per le stesse strade, e poi gli attacchi, il governo che mette in sicurezza le città, ogni cosa si sovrappone alle altre. E dunque noi sentiamo, come curatori della mostra, che ogni giorno diviene sempre più importante ricordare alle persone cosa sta succedendo a Istanbul, e nella Turchia, cosa succede nella regione. E come il governo non attua politiche liberali, creando delle classi estremamente squilibrate nel Paese che possono essere facilmente polarizzate, e possono essere separate, e così le persone possono dimenticare di piangere insieme o di alzare la voce insieme».
Hai incontrato qualche difficoltà particolare?
«Forse una, se possiamo chiamarla difficoltà. È come se la Turchia stesse attraversando un’incertezza a lungo termine, un’instabilità perché durante la preparazione della mostra ci sono state due importanti elezioni, così penso che tutti si sentissero come sospesi, e questo ha influito sulla possibilità di ulteriori collaborazioni locali che avremmo potuto costruire in Turchia: i nostri contatti in Istanbul hanno pienamente appoggiato la mostra, ma quando si arrivava a un coinvolgimento ulteriore c’era come una pausa, come a dire “Ok, che sta succedendo ora nel paese? Le cose sono deprimenti”. In Turchia la gente è senza speranza riguardo il futuro, mentre nella mostra noi abbiamo cercato di parlare di speranza in una sezione, “Hope”, non so quanto possiamo farlo, e come si uscirà da questa situazione».
Hai qualche artista o opera preferiti?
«In realtà non vedo questa mostra come un semplice pretesto per mettere qualche opera insieme, ma la vedo piuttosto come un telaio, e abbiamo parlato di questioni legate alla Istanbul di oggi, abbiamo avuto bisogno di fare delle divisioni, perché è stata una ricognizione molto grande e non puoi parlare di un solo aspetto quando parli di Istanbul, e volevamo davvero parlare della città nella maniera più ampia e dire “Questo è l’oggi in Turchia e a Istanbul”, e quindi ci sono molteplici livelli, che ho guardato come un tutto unico, e naturalmente poi si sono create delle sezioni in cui abbiamo deciso di inserire alcuni lavori piuttosto che altri, anche se le sezioni sono tutte assolutamente correlate perché quando parli di espansione urbana, parli anche della nuova economia, ma anche di migrazioni, di tensioni politiche, di come la popolazione di alcuni quartieri è ostacolata nel processo di gentrificazione, e così ogni aspetto si mescola con gli altri. Penso che diversi tipi di pubblico che verranno alla mostra possano percepirlo, attraverso la mostra è possibile una comprensione del contesto nei dettagli più profondi. Non ho preferiti, mi piace tutta la mostra».
E ora?
«Per questo lavoro ho impiegato un anno della mia vita, e perciò mi sento un po’ distaccata dal resto. Penso che continuerò a lavorare con artisti turchi e con questo contesto, perché sono molto coinvolta nella politica quotidiana che è parte della mia ricerca, perché in realtà tutti gli aspetti della mostra costituiscono l’interesse delle mie ricerche – insieme a altri accademici e ricercatori in Turchia e in New York, presso il Research Institute on Turkey – e sono parte della mia vita quotidiana».
Mario Finazzi