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25
novembre 2014
L’Intervista/Charles Avery
Personaggi
Come nascono le isole
L’artista scozzese ha inaugurato il nuovo Studio Sales di Roma. Con un’isola, i suoi abitanti. E l’utopia enciclopedica
L’artista scozzese ha inaugurato il nuovo Studio Sales di Roma. Con un’isola, i suoi abitanti. E l’utopia enciclopedica
Ogni artista è creatore ma Charles Avery si è spinto oltre, dando vita a un’intera isola, alla sua storia, e alla comunità che la abita. La sua opera è complessa e poche parole per spiegarla non bastano. A Exibart ha dedicato un’ora del suo tempo, parlandoci della sua terra immaginaria come un viaggiatore abituale racconta della sua meta preferita dove tu non sei stato ancora. Dopo qualche minuto di chiacchierata è riuscito a rendere quel luogo, né utopico né distopico, incredibilmente reale.
Qual è la genesi della tua opera?
«Avevo bisogno di crearmi uno schema alternativo a quello imposto dal sistema dell’arte. L’isola è la struttura all’interno della quale porto avanti la mia ricerca artistica ed essendo la struttura stessa una mia creazione, non mi pone altri limiti oltre quelli che mi sono imposto da solo».
Quali sono invece i limiti del mercato che hai cercato di evitare?
«Non volevo trovarmi forzato alla ripetizione. Soprattutto se ha successo con delle opere per un artista poi diventa molto difficile evolversi perché il mondo intorno a lui preme perché continui a riprodurre più o meno le stesse cose all’infinito».
L’universo di “The Island” è molto vasto, quale storia hai scelto di raccontare qui allo Studio Sales?
«Per questa mostra non ho voluto raccontare nessuna storia in particolare, ho voluto piuttosto dare il sapore dell’isola, tracciarne la texture raccogliendo elementi diversi all’interno dello stesso ambiente».
C’è anche un’altra terra nella tua storia, Triangland.
«Triangland è il nome con cui la chiamano gli abitanti di The Island, ed è un dispregiativo perché il triangolo è la forma più elementare quando parliamo di geometria piana.
The Island è una colonia di Triangland che in realtà rappresenta noi, il mondo reale.
Avevo bisogno di un luogo “altro” perché rappresenta l’osservatore esterno, e avevo bisogno che The Island venisse scoperta. Questo crea il mio canale narrativo, la prima contrapposizione. La maggior parte del mio lavoro nasce dal concetto di dualità, di opposti e senza Triangland sarebbe stato difficile raccontare The Island».
Come mai sull’isola parlano inglese (molti disegni contengono scritte ndr)?
«Ho riflettuto a lungo all’aspetto della lingua, anche perché è un elemento fondamentale per comprendere il modo in cui un popolo è abituato a pensare ad alcuni aspetti della vita. Avrei voluto inventarne una ad hoc, ma poi mi sono reso conto che sarebbe stato più comodo lasciarli parlare inglese. Hanno però alcune parole che appartengono al loro dialetto locale».
Osservando i tuoi disegni, senza conoscere la storia del tuo progetto, sarei portata a pensare che rappresentino la nostra società, più che quella di una terra immaginaria seppur con qualcosa di distonico rispetto alla realtà. Qual è il rapporto tra la cultura di the Island e quella di Triangland?
«A The Island ci sono le ultime vestigia della cultura di Triangland, molto è stato assimilato, ma altrettanto è stato rielaborato. Ci sono sempre delle differenze, nell’architettura, nel design. Il riflesso del loro modo di intendere la realtà permea costantemente la loro vita. Gli abitanti di Triangland sono empiristi, amano analizzare a catalogare l’incatalogabile, vengono sull’isola per contare le divinità locali. La gente del posto non è così, sono intrinsecamente razionalisti, non hanno bisogno di prove, colgono la continuità dell’universo in modo spontaneo. In più hanno un forte senso di identità e seppure alcuni abitanti siano emigrati in cerca di fortuna, la loro ambizione è sempre quella di tornare a casa».
La matematica e la filosofia sono due temi importanti nel tuo lavoro, in che modo costituiscono lo scheletro di The Island?
«Sono entrambi mondi che mi appassionano enormemente. Non mi reputo né un filosofo, né tantomeno un matematico, ma mi spingo fin dove posso perché credo che entrambe le discipline possano aiutare a vedere le cose in modo diverso da quello ordinario. Alcuni concetti li ho applicati anche visivamente all’interno delle mie opere, come ad esempio la tassellatura di Penrose (è uno schema di figure geometriche basate sulla sezione aurea, che permette di ottenere una tassellatura di superfici infinite in modo aperiodico, scoperta da Roger Penrose e Robert Ammann nel 1974) che ho usato per realizzare i pavimenti di alcune illustrazioni, ma anche per la mia casa in Scozia, con alcune perplessità da parte degli operai che le dovevano posare. Questo è un esempio di come su The Island non esistano veri e propri schemi».
In alcuni disegni così come in alcune tue sculture vediamo dei personaggi indossare degli stranissimi copricapi. Mi spieghi?
«Gli Islanders sono soliti riunirsi nei bar così come facciamo noi, solo che invece di seguire le partite di pallone si confrontano in appassionatissimi match filosofici. Ogni scuola di pensiero ha un leader che si distingue per il suo copricapo, e ci sono anche delle fazioni violente, una sorta di hooligans del pensiero che aggrediscono, un po’ alla Arancia Meccanica, chiunque indossi il cappello di un gruppo avversario. Questo è un problema soprattutto per i turisti che acquistano i copricapi come gadget e rischiano di trovarsi invischiati in dispute che in fondo non li riguardano».
In Italia sei venuto diverse volte, qual è il tuo rapporto con il nostro Paese, se ne hai uno in particolare?
«Roma mi piace molto, ho anche vissuto qui per un anno. In più qui ho sempre un buon riscontro di pubblico, sono apprezzato, molto di più di quanto non lo sia nel Regno Unito! Probabilmente in Italia è ancora possibile trovare chi apprezza un’arte contemporanea ma figurativa, chi non cerca l’incomprensibile a tutti i costi. Il mio lavoro non vuole essere criptico, anzi, e questo nel mercato dell’arte è un problema soprattutto in alcuni Paesi».
Quali sono i tuoi progetti ora?
«La mia aspirazione è di realizzare un’enciclopedia prima o poi. Quando sono ottimista la immagino immensa, quando lo sono meno i due fermalibri si avvicinano riducendo parecchio le dimensioni delle mie ambizioni. Mi piacerebbe che il mio lavoro su The Island diventasse un libro di testo nelle scuole, uno stimolo per l’immaginazione altrui. Mi piace pensare a questa dimensione aperta, in fondo un’enciclopedia è un libro che parla alla stesso tempo di tutto e di niente, è in costante aggiornamento, è sempre finita e non lo è mai».
In attesa dell’opera omnia di Charles Avery, vale la pena iniziare a scoprire i capitoli realizzati finora.