In occasione dell’ultima iniziativa alla Fondazione Querini Stampalia, Paesaggi d’aria. Luigi Ghirri e Yona Friedman / Jean-Baptiste Decavèle, apertasi il 20 novembre 2015, abbiamo chiesto alla curatrice per i progetti d’arte contemporanea della Fondazione, Chiara Bertola, di poter fare il punto sia sulla sua ultima proposta che sulla sua attività di curatrice in una città come Venezia.
Anche quest’ultima proposta si pone in una linea di continuità con quel che da ormai diversi anni contraddistingue la tua progettualità in Fondazione, cioè l’idea di “Conservare il Futuro”.
«Per me è stato un titolo felice, di ispirazione, frutto di un lavoro collettivo in grado di indicare una prospettiva per la Fondazione. Un ossimoro, che tiene insieme il grande lascito che costituisce il nucleo della Querini, cioè la vocazione e il compito di conservare – considerando la biblioteca, il museo, la raccolta dei manoscritti – con la necessità di continuare ad innovare quel nucleo, lavorando con la ricerca contemporanea, così come è stato fatto a suo tempo dalla famiglia Querini ad esempio con un artista a loro contemporaneo come il Longhi, oppure un altro artista come Jacopo Palma che era l’artista della casa. Quel che da una decina d’anni veniamo proponendo si basa sulla collaborazione con grandi artisti internazionali, oppure coinvolgendo artisti di spiccata qualità che fanno ancora base a Venezia, pur svolgendo la loro attività anche altrove, con lo scopo di stimolare nuove interpretazioni della Fondazione, toccando sia gli spazi così storicamente caratterizzati dell’abitazione/museo, sia quelli dovuti ad interventi modernisti, penso ovviamente al pianoterra ripensato da Carlo Scarpa, e in anni più recenti da Mario Botta, sia la parte più allestitivamente nuova, cioè le ampie sale espositive dell’ultimo piano, il white cube inserito in una struttura così caratterizzata storicamente».
In effetti si ha la sensazione di attraversare questi diversi livelli nelle proposte che hai fatto, una sorta di stratigrafia nella interpretazione di cosa sia questa istituzione.
«Come sai l’ultima nostra proposta sulla quale ritorneremo, cioè Paesaggi d’aria, che tiene insieme Luigi Ghirri e Yona Friedman, si articola negli spazi di un sensibilissimo architetto negli anni ’50, poi salendo abbiamo la casa-museo del Settecento, denso di segni, infine il terzo piano, dove invece abbiamo il diradarsi dei segni, e lo spazio bianco, vuoto. Considera che le dimensioni di questi ultimi ambienti sono le medesime dell’appartamento riccamente arredato sottostante. Questo white cube per me rappresentava anche una straordinaria potenzialità di lavoro con gli artisti senza sentire troppo la pressione e la densità della presenza storica. Avere la mente libera, avere, per così dire, una stanza vuota, rappresenta una condizione ideale per poter attraversare gli altri spazi, ripensandoli ed eventualmente per accoglierne le suggestioni. Questa doppia possibilità è stata molto stimolante per gli artisti e un’occasione per aggiornare la loro stessa sperimentazione. Come curatrice sono attenta a poter offrire questa condizione per l’espansione del lavoro dell’artista che invito».
Certo le grandi sale vuote, però uno degli aspetti forse più tesi del tuo lavoro in fondazione è l’offrire anche la possibilità di interagire anche con gli spazi della dimora Querini.
«Faccio degli esempi. Con Mona Hatoum abbiamo fatto una progetto che per la stessa artista rimane uno dei più significativi. Abbiamo cominciato a pensare la mostra insieme nel suo studio a Berlino, però poi l’ho invitata non solo in Querini, ma a stare a Venezia, visitando Murano a vedere i depositi del vetro, a vedere come lavorano gli artigiani, oppure nei depositi dei libri della Querini così da comprendere anche il backstage della Fondazione. Questo lavoro di immersione nella storia della Querini e della citta’ l’ho faccio un po’ sempre con tutti gli artisti che ho invitato ad esporre. Ma direi che il “tempo” e’ pero’ la condizione fondamentale del senso della mia pratica curatoriale: ogni progetto ha una gestazione di circa due anni. Ma tornando a Mona non so cosa lei abbia effettivamente ritenuto per se stessa di quelle passeggiate veneziane, di quelle immersioni in atmosfere e spazi non ovvi. Qualcosa però è accaduto quando visitando la sala delle porcellane del museo, una sala dal sapore rococò, con produzioni di Sèvres, lei ha visto al centro della tavola preparata, il Trionfo in biscuit. Mona, dopo un po’ di tempo mi propone un’idea bellissima, di fare nelle stesse misure del Trionfo che decorava la tavola aristocratica, apparato decorativo, se vuoi, che è anche una immagine del potere, una versione del Monumento ai caduti di Beirut. A me ha emozionato profondamente la proposta, con tutto quel che di tragico vi è in quel monumento, costellato dai fori dei proiettili. Così come la sua frutta destabilizzante, le Pommes de grenade, messe nella vetrina dello Jappelli, che solo in un secondo momento capisci che sono oggetti a forma di bomba a mano, granate appunto».
Il lavoro della Hatoum, è di qualche anno fa, da allora, così come fin dall’inizio di questo tuo progetto pluriennnale hai continuato ad occuparti ininterrottamente del rapporto che si poteva tessere fra lo spazio neutro, contemporaneo, lo spazio segnato nei secoli, e ora, quasi ripercorrendo i diversi livelli della Querini, hai attivato quest’ultimo progetto nell’ala moderna quella scarpiana. Siamo all’ultimo progetto almeno nell’ordine di tempo, però è anche il primo, e lo annunci nel comunicato stampa, di una serie di possibili lavori.
«A me piace in effetti progettare più prospetticamente che non per singoli appuntamenti, dei mattoni se vuoi, di una costruzione che si configura nel tempo. Nello specifico di quest’ultima iniziativa il tutto è nato da una proposta di un amico collezionista, Roberto Lombardi che aveva acquistato delle opere di Luigi Ghirri, facenti parte della serie Il Profilo delle nuvole – Immagini di un paesaggio italiano. Lombardi mi ha chiesto se e come fosse possibile interessare la Querini per l’eventuale conservazione dei materiali. Certamente è fra i compiti previsti dalla Fondazione, ma ho proposto si facesse un lavoro più attivo con questi bellissimi lavori, individuando dei fili non solo per la loro rilettura, ma anche come suggestioni appunto per progetti a venire. Dunque un lavoro critico-storico su Ghirri, lavorando prospetticamente sulla sua eredità. D’altronde ci si sta cominciando a rendere conto che gli artisti italiani, e non mi riferisco ovviamente al solo passato, ci hanno offerto delle opportunità incredibili per approfondire e comprendere questo nostro tempo. Questo è quel che intendo, come senso di conservare il futuro. Cioè mi chiedo cosa vi sia di più vivo dello sguardo di un artista contemporaneo, cosa vi sia di più vivo di un fondo di opere, messo a disposizione da un collezionista, che non se ne resti chiuso nelle teche, aperte solo per l’eventuale consultazione degli specialisti e degli studiosi. Questo è chiaro essere comunque nelle corde di una istituzione come la Querini, ma è pur vero che il lavoro che si può ulteriormente fare è in vista della restituzione di un altro senso allo stesso lavoro del conservare, se vuoi un più ampio spettro di ciò che possiamo intendere oggi con l’aver cura: m’interessa lavorare anche sulle eredità culturali mettendo luce le ricerche di certi artisti che non sono mai stati né visti né conosciuti perché forse troppo avanti, ma che invece hanno nella loro ricerca indicazioni assolutamente contemporanee».
Hai incrociato questa volta una relazione fra Ghirri e Friedman, mi pare di cogliere avendo entrambi questi lavori, nella loro specificità, a che fare con l’idea di territorio.
«Friedman è un architetto, più che novantenne, e che continua ad avere idee estremamente stimolanti, che sono in questo caso servite per un lavoro poi effettivamente realizzato nella tenuta vinicola della famiglia Felluga in Friuli. Friedman lavora da diversi anni con Jean-Baptiste Decavèle. Friedman, come sai, manda degli accenni di costruzioni possibili, in questo caso da collocare sulle colline della tenuta friulana, concretizzate come segni nello spazio aperto, come disegni materializzati sui quali si può anche far crescere la vite. Ma quel che conta è la capacità che questo lavoro ha di inquadrare il paesaggio, così che fra l’opera e il contesto vi sia una relazione senza soluzione di continuità. La relazione con Ghirri penso così possa divenire più chiara».
Se non ho capito male intendi una relazione fra un segno architettonico che inquadra, e uno sguardo fotografico sull’intorno che ha anch’esso una capacità per così dire, “inquadrante”. Come un processo di evidenziazione, di affioramento di aspetti dell’esistente altrimenti non percepibili.
«Yona lo dice nei suoi disegni, nelle sue animazioni – che qui abbiamo scelto di proiettare direttamente sulle pareti che Scarpa ha voluto prive di intonaco – come si possa deviare da quel che intendiamo come il contenitore per il ‘da vedere’ che è il museo. Dagli anni ’50, se non prima, Friedman propone queste soluzione eccentriche che ci costringono a ripensare la funzione di ciò che costruiamo. Una lunga e operosa esistenza quella di Friedman, coerente e radicale nella sua capacità di elaborazioni originali. Ghirri purtroppo è mancato a soli quarantotto anni. Ma ha percorso una strada incredibile, e che ha fatto proseliti. La concezione di Paesaggi d’aria dunque si è basata sul mettere insieme due artisti, dai percorsi individuali certamente distinti, però che lavorano entrambi nella direzione indicata dal titolo che abbiamo voluto dare a questo progetto. Paesaggi osservati in modo inusuale, inquadrati dalla particolarità di uno sguardo fotografico o di un segno architettonico. Il progetto è stato concepito insieme con Giuliano Sergio, un giovane curatore e un raffinato studioso che collabora con RAM Radioartemobile, promotrice del progetto di Yona Friedman per Livio Felluga. Sergio aveva già lavorato sull’opera di Ghirri per la mostra del fotografo al Maxxi Roma, abbiamo collaborato direi in modo molto naturale».
Un’ultima domanda, riguarda il tuo lavorare a Venezia.
«Ah sì, Venezia per me è fondamentale, è un luogo fuori da tutto, che mi concede lo spazio per poter pensare. Lo so che può sembrare quanto meno stravagante considerare la città della Biennale, “fuori da tutto”. La sensazione però è che quel che è accaduto a Venezia nei secoli, riesce in qualche modo a non essere risolto nelle dinamiche contingenti, non di rado soffocanti, del turismo, delle grandi navi, del succedersi delle esposizioni. Come se quel che è stato creato qui, abbia una tale rilevanza nell’ambito di ciò che i greci definivano kalòs kai agathòs, bello e buono, da poter esprimere una forza, e una lontananza, che costringono, soprattutto se vuoi lavorarvi in ambiti come il nostro, ad una costante disciplina anche nel vissuto quotidiano. Questa è la cornice che rende possibile il realizzarsi di progetti contemporanei, in grado di cogliere ciò che caratterizza il senso di questa città, progetti che non si esauriscono nelle circostanze del ‘qui e ora’. In qualche modo è a Venezia, che puoi essere “radicale”, innovativo in modo mai ovvio».
Conversazione fra Chiara Bertola e Riccardo Caldura realizzata il 3 dicembre 2015 in occasione della mostra “Paesaggi d’aria. Luigi Ghirri e Yona Friedman / Jean-Baptiste Decavèle”, un progetto a cura di Chiara Bertola e Giuliano Sergio in collaborazione con Livio Felluga e RAM radioartemobile