Il banco ottico dialoga con il computer nello studio di Claudio Abate (Roma, 1943) in Via dei Sabelli, a Roma. Nella stanza che custodisce l’archivio, ci sono grandi foto alle pareti che segnano tappe importanti nel percorso del fotografo. Una è certamente quella in bianco e nero scattata nel 1969 nel garage de L’Attico in via Beccaria, che raffigura i cavalli vivi di Kounellis. “Claudio ha fotografato moltissimi dei miei lavori, con sentimento e attenzione, valutando lo spazio e raccogliendo la drammaticità che i vari momenti di sconvolgimento formale pretendevano”, ha detto di lui l’artista in occasione della mostra del 2007 a Villa Medici.
Per Abate fotografare vuol dire “fermare un attimo e condensare una situazione”. In particolare la fotografia d’arte è sempre stata una grande passione, un “divertissement” in cui far convogliare curiosità, spirito d’osservazione e quella ricerca di perfezione che, forse, è una delle sfide più grandi. Ma un fattore imprescindibile è anche il rapporto d’amicizia, la complicità nel condividere momenti goderecci intorno alla tavola, mangiando, bevendo, giocando a carte.
Era così ai tempi del bar Notegen in via del Babuino e più tardi, dalla fine degli anni Ottanta, al ristorante Pommidoro nel quartiere romano di San Lorenzo. Tra gli amici artisti che Abate ha seguito nel tempo c’è anche Oliviero Rainaldi di cui, in occasione della mostra Claudio Abate e gli Artisti, a cura di Brunella Buscicchio Scherer, da Doozo art book & sushi a Roma (fino al 31 maggio 2015) vediamo oltre a Gisant (1994) e Battesimi umani (1998) anche gli scatti inediti della mostra al Tempio del Bramante in S. Pietro in Montorio (estate 2014). Molte immagini sono stampe vintage, come quelle in cui riconosciamo Andy Warhol, Gino De Dominicis e Fabio Sargentini mentre assistono alla piéce di Joan Jonas sul Tevere nel 1972, Emilio Prini alla Settima Biennale di Parigi del 1971.
La fotografia è la memoria di tante storie che s’intrecciano nel raccontare un periodo di grande creatività in cui, come afferma il fotografo “succedeva sempre qualcosa”.
Partiamo dall’autoritratto dei primi anni Settanta in cui hai in mano un’opera di Vettor Pisani… (in home page)
«Non amo fotografarmi, ma se ho scelto quell’immagine è perché mi colpiva, la sentivo molto forte. L’autoscatto l’ho realizzato nel mio studio di Via del Babuino. Sono nato in via Margutta e prima di fare il militare, a diciannove anni, avevo già lo studio lì».
Tuo padre – Domenico Abate Cristaldi (Catania 1891-Roma 1949) – era pittore e aveva lo studio in via Margutta.
«Avevo quattro anni e mezzo quando mio padre è morto. Era un bravissimo pittore, amico di de Chirico con cui s’incontrava al Caffè Greco, punto di ritrovo di molti artisti dell’epoca, come lo era anche il bar Notegen. Vi passavano pittori, registi, come Fellini che abitava lì. Da Notegen ho conosciuto Carmelo Bene. Era proprio un punto di passaggio obbligato».
Un passo indietro agli esordi della tua professione. Cosa ti ha portato a diventare il “ragazzino di bottega” di un fotografo?
«Dall’età di sei anni sono stato in collegio ad Ostia, per circa cinque anni. Ricordo che un amico medico di mio padre, che era il mio padrino, mi regalò una macchina fotografica. Da quel momento ho avuto questa passione. Anche se i primi rullini li bruciavo tutti, perché ero bambino e curioso. Ma mi piaceva sperimentare. Credo di esser stato il primo, a Roma, ad aver avuto una macchina fotografica 35 mm in un’epoca in cui si fotografava con il classico banco ottico. Già a quindici anni, dopo aver lavorato per tre anni nello studio del fotografo Michelangelo Como a via Margutta, cominciai a fotografare quadri e sculture degli artisti, portandogli via il lavoro. Guadagnavo tanto da riuscir a prendere, verso i diciannove anni, lo studio in via del Babuino 99. Sebbene gli affitti non fossero così cari come oggi, costava pur sempre 40mila lire! Era uno studio molto bello e pieno di luce, all’ultimo piano con un lucernaio. Sembrava più lo studio di uno scultore e io facevo ritratti e un po’ di tutto. Ma, poi, lo sentii un po’ piccolo e, dato che c’era un fotografo che partiva per Milano presi il suo studio – al civico 125 – che era più grande e attrezzato. Per 47 anni ho vissuto e lavorato tra via Margutta e via del Babuino. Sono andato via nel 1989, trasferendomi qui a San Lorenzo perché ormai era tutto cambiato, non era più possibile vivere lì. Gli antiquari e gli artigiani che facevano dorature, intelaiature e cornici erano stati sostituiti dalle grandi sartorie e case di moda che pagavano cifre enormi per quegli spazi. Prima non era così costoso vivere in via Margutta, anzi i pittori che avevano successo, quando diventavano ricchi compravano casa ai Parioli. In via Margutta, del resto, c’erano i topi. Adesso, naturalmente, vorrebbero tornarci!».
Dal ’61 al ’63 sei stato assistente di Erich Lessing. Che voleva dire per te lavorare con questo grande fotografo della Magnum?
«Credo che la curiosità fosse quella di capire e imparare quello che fa l’altro. In realtà ho imparato subito. Lavorare con Lessing è stata certamente una grande esperienze, una bella carica. Nel 2009 per l’inaugurazione della mia mostra a Bordeaux (Claude Abate photographe. Installation et Performance Art – n. d. R.), quasi novantenne, è venuto apposta da Vienna. Ho lavorato con lui come assistente quando Life aveva l’ufficio a Roma, vicino via Veneto. Era velocissimo nel maneggiare il grande formato. Volevo arrivare ad avere la sua stessa velocità e lui me l’ha permesso. Ricordo che gestivo il banco ottico come se fosse una 6×6. Sbagliando, poi, s’impara. Ed io ho sbagliato molto, però non se n’è accorto nessuno! (ride) ».
Tra i tuoi primi ritratti, datato 1959, ce n’è uno di Mario Schifano. Con lui, come con gli altri esponenti della Scuola di Piazza del Popolo hai avuto uno scambio intenso…
«Li ho conosciuti per via del mio studio fotografico e li ho seguiti per molto tempo, soprattutto Tano Festa, Mario Schifano e Franco Angeli. Erano simpatici, mi piaceva l’energia che avevano. Poi, ad un certo momento Schifano si arrabbiò con me, quando seppe che avevo iniziato a lavorare con Kounellis. Non si potevano vedere! Per lui fu come un tradimento e non mi parlò per un lungo periodo. Schifano era molto sensibile nei confronti dell’amicizia. Quando l’ho conosciuto era timidissimo e alle mostre era anche un po’ impacciato, frequentava sempre le nobildonne. Sì, ricordo che era un po’ isolato. All’epoca, non credo che avesse a che fare con le droghe, come si è detto più tardi. Ci si incontrava sempre al bar».
Invece, Pino Pascali?
«Pascali l’ho conosciuto successivamente, quando iniziai a lavorare con il gruppo dell’Arte Povera. Fu tra i primi del gruppo che frequentai. Mi veniva a prendere con la moto – quella con cui è morto – a studio, che allora era al n. 99 di via del Babuino, e mi portava nel suo per fare le foto. Sarà stato il ’64, il ’65, o forse anche prima. Ci siamo proprio divertiti! Allora sì che c’era un altro spirito, si percepiva che c’era qualcosa sempre in movimento. Personalmente, però, mi sentivo più coinvolto dalla dimensione scultorea dell’installazione, rispetto alla superficie piatta del quadro. Mi interessava il mio movimento in relazione all’opera. Forse perché da bambino, tutti i pomeriggi andavo a trovare Pericle Fazzini, che stava in uno studio in via Margutta, di fronte a quello di Como dove lavoravo. Mi mettevo lì e osservavo. Credo di esser diventato tra i più bravi a fotografare sculture, proprio per via di questa esperienza. Ricordo il suo gesto – come girava la scultura per vedere il rilievo – in base alla luce che arrivava dall’alto, attraverso un finestrone».
Ugo Mulas, Massimo Piersanti, Elisabetta Catalano… tra tutti voi che fotografavate l’arte c’era un rapporto d’amicizia o frequentazione, visto che spesso vi ritrovavate a fotografare grandi kermesse romane come Vitalità del negativo (1970) e Contemporanea (1973-74)?
«Naturalmente ci conoscevamo. Mulas aveva molta considerazione del mio lavoro, sebbene fossi più giovane. Ma c’è da dire che – per quanto mi riguarda – fotografare l’arte, avendo sempre avuto a che fare con questo mondo, era più che altro una passione. Fotografavo per Play Man e guadagnavo tanti di quei soldi – trecentocinquantamila lire al mese all’epoca erano proprio tante! – che mi permettevano di seguire gli artisti quasi gratuitamente. Per Play Man normalmente facevo nudo in situazioni d’arte, perciò salvavo anche il giornale che era molto preso di mira. Ad esempio le foto di Carmelo Bene del ’63, in cui c’erano anche dei nudi, diventavano “servizio culturale”, pertanto la rivista non poteva essere censurata. Solo successivamente ho cominciato a guadagnare anche con l’arte, quando ormai avevo conquistato una professionalità e un riconoscimento».
Ci sono altri generi della fotografia di cui ti sei occupato?
«Forse sono l’unico fotografo che, come ha detto anche Celant, ha toccato tutti i settori della fotografia. Foto sperimentali, d’arte, pubblicità, foto di scena e anche reportage. Credo di avere circa 8mila foto della Libia che ho fotografato, all’inizio degli anni Settanta, su commissione del governo libico. C’è stato anche un periodo, quando ero ventenne, in cui facevo fotoromanzi. Eravamo un gruppo di amici, io ero produttore e fotografo, poi c’era chi scriveva i testi. Il fotoromanzo si chiamava Tribuna d’Amore».
In particolare, nella fotografia d’arte qual è la strategia che adotti?
«Da subito ho imparato a osservare gli artisti. Con Kounellis, ad esempio, notavo che quando allestiva una situazione si metteva in un punto preciso da cui la guardava. Così ho capito che aveva sempre lo stesso punto d’osservazione che, poi, coincide con la foto finale».
Tra gli altri grandi artisti che hai fotografato ci sono anche Beuys, di cui hai realizzato anche parecchi scatti a colori, e De Dominicis.
«Beuys l’ho conosciuto con Lucio Amelio, dato che andavo spesso a fotografare nella sua galleria a Napoli, e anche agli Incontri Internazionali d’Arte a Roma. Era molto silenzioso, poi, quando è morto, è stata sua moglie a scegliermi per fare il libro (Joseph Beuys, Block Beuys: der Block Beuys im Hessischen Landesmuseum Darmstadt, 1997 – n.d.R.) con gli oggetti che aveva raccolto e conservato a Darmstadt nelle bacheche del museo. Ad essere veramente simpatico era Amelio! Quanto a De Dominicis eravamo molto amici, veniva tutte le sere a studio da me e facevamo sempre le tre, le quattro di notte. Si faceva casino, si beveva. Però, dopo le vicende de “il mongoloide”, nel ’72, era cambiato totalmente. E pensare che il disegno originale, a matita, de “il mongoloide” ce l’avevo io! Me lo aveva regalato, ma poi un giorno venne in studio e mi disse che la cornice non gli piaceva, era brutta e me l’avrebbe rifatta. Così si portò via il disegno e non me lo restituì più. Per non parlare dei negativi… Mi ha distrutto il 90 per cento dei suoi negativi! Non voleva più documentazioni in giro. Così veniva in studio e con la scusa di scegliere delle cose, prendeva i negativi e se li metteva in tasca. Lì per lì non me ne accorgevo, credo che mi abbia portato via qualcosa come 180 negativi. Qualche foto l’ho recuperata, ma si tratta di poco. Insieme a Rustichelli aveva formulato l’interessante teoria dell’immortalità. Certo, però, che teorizzare l’immortalità e morire a cinquant’anni! E non si sa neanche com’è morto».
Nel 1989 ti sei trasferito a San Lorenzo, dove hai trovato il fermento creativo degli artisti della cosiddetta Scuola di San Lorenzo…
«C’era tutto un mondo che s’incontrava da Pommidoro, dove mangiavo sia a pranzo che a cena. Giocavamo a carte fino alle quattro di notte. Un mondo che non c’è più. Ormai ci siamo tutti dispersi. Sono arrivato qui con l’idea che stavo cominciando una nuova avventura con un gruppo di artisti giovani che non erano ancora affermati. Loro mi hanno riconosciuto come fotografo importante anche per loro, per cui abbiamo iniziato a collaborare».
Giocare a carte è un’attività che ritorna nel tuo percorso biografico… poker o magari scopone scientifico con Carmelo Bene…
«È lo stare bene insieme! L’amicizia è una necessità, quando si sa che si sta bene insieme».
Manuela De Leonardis
foto in alto: L’Attico in viaggio, 1976