Quando hai iniziato a fotografare e perché ha scelto questo media?
«Ho studiato fotografia artistica all’università, ma ancora prima ero affascinato dalla fotografia documentaristica».
Quanto ha inciso la tua identità, formazione e tradizione culturale coreana nella ricerca del tuo linguaggio visivo ?
«Sono curioso di natura, sempre alla ricerca di fare nuove esperienze e di creare un dialogo con culture diverse dalla mia. Sono insofferente al lavoro manuale e sedentario. Mia madre si lamentava della qualità della mia scrittura e penso che la fotografia è per me il mezzo espressivo più adatto perché è incentrato sulla realtà. Il mondo appare diverso a seconda di dove ti trovi. Lo stesso fatto o lo stesso problema provoca a seconda del posto dove è vissuto sentimenti ed emozioni diverse grazie all’esperienza privata e al background culturale. Anche se non generalizzo la cultura asiatica, trovo che ci sono molte similitudini tra gli asiatici orientali riguardo la condivisione della tradizione. Ad esempio tendono a ridurre in un dettaglio le esperienze che fanno all’estero, a me invece piace pensare a un progetto di comprensione più ampio e descrivo le problematiche in modo simbolico ed ironico».
Sei è un fotoreporter dell’emergenza che traduce tragedie ambientali con immagini poetiche, denunciando cause ed effetti della globalizzazione e del dissesto ambientale. Perché ti interessi a questi temi ?
«Tutti i miei progetti fatti in passato trattano di globalizzazione; è un concetto molto vario che va dall’economia all’ambiente. Affronto tematiche basate sul rapporto uomo-natura. Tutti noi acquisiamo risorse dalla natura perché è da essa che nasciamo ed è per questo che la natura è intrinsecamente unita all’essere umano».
Nell’ambito di Photofestival a Milano nella galleria Amy-d Arte si è presentata “Quand la mer monte”, una serie di immagini surreali che denunciano la vita dei pescatori “superstiti” nell’Isola Ghoramara del Gange drammaticamente colpita dai cambiamenti climatici dell’effetto serra. Di che cosa si tratta esattamente ?
«Ghoramara è un progetto ambientale in tema di globalizzazione: ho usato il paradosso e l’ironia per descrivere la bellezza tragica del posto. Quando ho soggiornato a Ghoramara mi ha colpito la spiaggia e l’erosione delle rocce, la bellezza surreale del paesaggio da cui ho tratto un racconto fotografico molto ironico con un approccio simbolico. Ma i pescatori dell’isola di Ghoramara del delta del Gange sono stati drammaticamente coinvolti dai cambiamenti climatici dovuti all’inquinamento. Il collegamento è la relazione tra uomo e natura; tutto verte intorno a questo fragile equilibrio. Il cambiamento climatico è causato dal consumo di combustibili fossili, le cause vanno rintracciate nella globalizzazione e al ritorno al colonialismo. La verità in termini di consumo energetico e di sfruttamento naturale è l’equiparazione del processo di fabbricazione tra una borsa di lusso realizzata in Italia che costa 1000 euro e i 10 euro del costo di una borsa realizzata in India, dimenticando che il valore reale è diverso per l’uso di manodopera minorile e a basso costo e lo sfruttamento di risorse di altri paesi. Infine, il consumo di massa ha un impatto ambientale su persone molto lontane da noi, perché tutto è correlato ed è questa la causa che ci collega a Ghoramara».
Perché hai scelto proprio questa isola?
«Non mi intessa come oggetto specifico legato a quel posto in particolare. Sono tanti gli esempi simili in Alaska, Tuvalu e altri. Ciò che mi interessa fare con il mio lavoro, è rivendicare i diritti di queste persone e le nostre responsabilità nel rispetto delle loro vite e di tutto quanto fanno per noi e per il nostro benessere. È grazie a loro che noi possiamo mantenere una qualità alta di vita. Ad esempio il costo di una pagnotta di pane è di 0,1 euro. Ma quante persone sono coinvolte in una pagnotta di pane ? Il processo di produzione richiede più di un anno di semina del grano, il raccolto, la cottura e la distribuzione. In questo processo quante persone ci sono? È importante tenere sempre a mente che viviamo in un sistema globale».
Quali sono i progetti che hanno completamente modificato il tuo modo di guardare il mondo?
«Non c’è un particolare progetto che mi ha influenzato. Mi sono trasferito a Parigi tre anni fa e ho conosciuto molti fotografi con cui mi sono confrontato. Ho compreso che avevamo un diverso modo di vedere il mondo e ho pensato che ciò dipendeva dal background culturale e dalle nostre identità etniche. Ho ripensato al mio progetto in un’ottica occidentale cercando di vedere con un occhio diverso dal mio. Ho iniziato quindi a documentare tutti gli stereotipi e le impressioni sul mondo come ad esempio associare gli africani alla povertà e al bisogno di aiuto. Provavo molto disagio e grazie alla mia fotografia cerco di ridare dignità e rispetto a quelle persone».
Secondo te che ruolo ha la fotografia nella nostra epoca digitale ?
«La fotografia per me è un supporto artistico come altri. Il vantaggio è che documenta in termini di ottica e di chimica. La fotografia non dice la verità e spesso viene manipolata. Per me è una questione di ironia e paradosso ed ecco perché l’ho scelta come mezzo espressivo del mio sguardo sul mondo. Nell’epoca digitale la fotografia resisterà come è resistita la pittura perché entrambe sono dei mezzi propri di espressione».
Manipoli le tue immagini, come e perché?
«Ritocco poco le immagini sul computer, perché sono vecchio stile, regolo solo un po’ il colore in sintonia con il soggetto e il contesto progettuale. Si possono fare bellissime immagini HDR con tecnologia digitale ma per me il racconto dell’immagine è più importante di una bella foto».
In che cosa consiste il progetto “Futuristic Argheology” in corso d’opera e quali sono gli obiettivi ?
«Archeologia futurista è una seconda serie di progetti inerenti le questioni ambientali. Si tratta di desertificazione. L’ispirazione l’ho tratta da una mostra visitata al Museo di Quay Branly a Parigi . Questo museo ha molte collezioni provenienti da diverse parti del mondo dal 18 e 19esimo secolo. Dopo la mostra ho pensato che la cultura è morta. Per essere viva deve mantenere la propria funzione nel proprio habitat originale. Dal paradosso di vedere culture e civiltà all’interno di un museo ho avuto l’idea di fare una collezione museale con persone vive ispirandomi alle persone nomadi del deserto della Mongolia che, a causa della desertificazione, spariranno. A questo progetto sto lavorando dal 2013. Ecco perché l’ho chiamato archeologia futurista».
Dietro lo scatto fotografico c’è un messaggio o un’evocazione di altre complessità o paradossi di ciò che non si può cogliere prima che l’invisibile diventi immagine ?
«Grazie alla fotografia il paradosso diventa visibile, ma esso già esiste in natura».
Quali fotografi o artisti del passato hanno influito sul tuo modo di raccontare il mondo?
«Josef Kudelka che ha iniziato la sua carriera come fotografo documentarista, così mi resi conto che il documentario può essere più artistico e poetico parlando di temi sociali con il codice nascosto nelle immagini. Il suo lavoro mi ha mostrato la possibilità e la direzione per sviluppare un potenziale espressivo con la fotografia documentaria. Altre influenze: Andrea Gursky e la storia dell’arte».
Perché sei più interessato agli uomini piuttosto che al paesaggio?
«Mi piacciono le persone che vivono nel paesaggio. Uno comprende l’altro e non le ho mai distinte. Personalmente sono interessato al rapporto che esiste tra la natura e l’uomo perché viviamo sulla Terra che è una piccola parte della natura».
Cosa consiglieresti a un giovane che vuole fare il tuo mestiere?
«Gli suggerirei di fare ciò che più gli piace e di chiedersi perché ha fatto quella scelta. Per un artista la vita è difficile e potrebbe non esserci nessun riconoscimento ufficiale o guadagno. Se parti pensando che non guadagnerai e hai passione sei sulla buona strada perché hai trovato la tua. Fare molti viaggi per mettere a confronto culture contro il pregiudizio iniziale. Se si hanno pregiudizi sulle differenze si perde la possibilità di imparare e trarre ispirazione. L’arte puoi farla in un secondo momento quando hai la consapevolezza del tuo linguaggio e se vuoi realmente essere un artista».
Quando una fotografia diventa artistica ?
«Quando visualizza quello che l’artista vuole significare».