29 giugno 2019

L’INTERVISTA/ DAVID LACHAPELLE

 
FELICITÀ È UN’ARCADIA 3.0
“Atti Divini” alla Reggia di Venaria traccia una lettura personale del fotografo sull’umanità. Partendo dalle Hawaii

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Irriverente? Provocatorio? Un tantino blasfemo? Chiedere a David LaChapelle di definire il suo stile equivale a fare un buco nell’acqua. Il quesito resta nel vuoto, non per un vezzo, ma semplicemente perché lui questa domanda non se l’è mai posta e, quindi, una replica in merito non ce l’ha. Non ha nessuna voglia – ma lo lascia intuire con garbo – di mettere un’etichetta alla sua cifra che, qua e là, è stata definita barocca, esagerata, ai limiti del caricaturale, ironica. Voce del “verbo” kitsch. Oltre alla forma – risultato di una meticolosa messa in scena dei soggetti e degli sfondi, che precede lo scatto e travalica i confini della fotografia con pose e set dal sapore teatrale e cinematografico – per David LaChapelle è importante il contenuto. 
E una missione possibile. «Ho sempre saputo, sin da bambino, che nella vita avrei fatto l’artista ed esserlo diventato è stata una benedizione, ma anche una responsabilità. Non è solo una questione di realizzare immagini. Il mio obiettivo non è aggiungere altre cose belle nel mercato dell’arte. Attraverso le mie prospettive personali vorrei, invece, dare stimoli a chi le guarda per capire qualcosa di più di sé e di ciò che ci circonda. La mia speranza è toccare le persone, proprio come fa la musica». LaChapelle lo aveva già dichiarato nei primi giorni della mostra “Lost+Found”, ai Tre Oci di Venezia, nel 2017, e lo conferma anche oggi, in occasione della nuova esposizione, “Atti Divini”, appena partita alla Reggia di Venaria, presso gli spazi maxi della Citroneria delle Scuderie Juvarriane e in programmazione fino al 6 gennaio 2020. 
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The Holy Family whith St. Francis, 2019 © David LaChapelle
«È la mia storia in diversi capitoli con cui ho voluto comunicare un viaggio, un’evoluzione». Che non sia un’antologica lo sottolinea Denis Curti, curatore, insieme a Reiner Opoku, di Atti Divini. «Vuole raccontare un periodo ben preciso dell’autore attraverso 70 opere, che per più della metà sono lavori praticamente inediti degli ultimi tempi. La prima parola chiave da tenere in mente durante la visita è: apparenza. La mostra la rivela subito con immagini bellissime, che sono delle vanitas: quando ci si avvicina, si scopre che contengono un dramma, un dolore, una dimensione critica ed etica molto forte. La data fondamentale nel percorso di LaChapelle è il 2006, quando è tornato a Roma, dove era stato nei primi anni Ottanta». 
Rivedere la Cappella Sistina ha confermato l’amore per la pittura rinascimentale, al completo, ma soprattutto per Michelangelo. Che resta il suo chiodo fisso. Il Diluvio lo ha definitivamente incantato, sdoganando l’acqua come motivo iconografico ricorrente nella sua opera. Intriso di significati simbolici. «Sì, è decisamente un fil rouge. Un tema chiave. Rappresenta le inondazioni, quindi la devastazione, la fine. Tuttavia l’acqua è associata anche alla vita. A nuovi inizi. Nella serie Awakened (Risvegli), del 2007, ho ritratto persone che galleggiano in un liquido: non sono né morte, né vive, bensì sospese, come nell’utero materno, in attesa di una rinascita. Quando ho visto il Diluvio di Michelangelo non ho pensato a qualcosa di apocalittico, ma a un momento estremo in cui gli esseri umani dimostrano di volersi aiutare tra loro. Io li ho “dipinti” così: stanno per morire, eppure si tendono la mano uno con l’altro ed è il massimo dell’espressione della natura umana». Ecco spiegato uno dei clic della visione ottimistica di LaChapelle e il messaggio di speranza frutto di una sua ricerca interiore. Nel raccontarlo non nasconde un certo pathos. 
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Annunciation, 2019 Credits: © David LaChapelle
Dopo un periodo di addiction, vissuto dagli anni Novanta in poi, è riuscito a disintossicarsi da parecchie dipendenze che lo avevano travolto. Ora ha trovato un’armonia che si tiene ben stretta, legata a doppio filo con la spiritualità. «Mio zio, il fratello di mio padre, era un prete: la mamma lo chiamava Hector the holy collector (Ettore il collettore del sacro). Papà era molto cattolico, invece mia madre trovava il divino nella natura, per lei era quella la cattedrale di Dio. Sono cresciuto quindi in un contesto dove circolavano idee e modi diversi per vivere la fede. Sarà per questo che credo in un’idea pluralistica della religione: vedo, per esempio, incredibili parallelismi tra il buddismo e il cristianesimo. Per me tutte le religioni sono fiumi di verità che portano allo stesso oceano. Ed è ciò che desidero sottolineare ora con la mia arte. Questi sono tempi difficili e un po’ bui e non stiamo ricevendo aiuto dai politici per uscirne. Siamo noi che abbiamo la responsabilità di risvegliarci per cambiare le cose». Raccontare la sua spiritualità con episodi tratti dalla vita di Cristo – dalla moltiplicazione dei pani e dei pesci all’Ultima cena – in contesti underground, degradati e soffusi di metallici effetti al neon, ha rappresentato per LaChapelle una sorta di liberazione. Anche compositiva. A partire dal colore, che si è fatto via via sempre più brillante. E che secondo Denis Curti non ha niente a che fare con il kitsch. «Non lo liquiderei così, David è arrivato a definire uno stile molto più secco ed estetizzante. Quello che gli interessa è arrivare alla gente con messaggi di gioia e ottimismo per il futuro. Attraverso la sua esperienza personale ha capito che ce la si può fare». 
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Loaves and Fishes, 2003 © David LaChapelle
E, a comprendere la poetica dell’artista, è stato anche il prete di Venaria Reale, che Curti ha incontrato e accompagnato alla scoperta della mostra prima dell’opening. «Qualche pregiudizio inizialmente lo aveva, ma al termine della visita ha compreso perfettamente il percorso dell’artista. Anzi, mi ha chiesto di tradurgli una mail di ringraziamenti per il lavoro che ha fatto e che vuole assolutamente spedirgli. Del resto in queste opere non c’è nulla di provocatorio o di blasfemo, tanto meno di pornografico. Trovo invece che ci sia una naturalezza e una spiritualità profondissime». Complice la natura: delle Hawaii, in particolare, dove LaChapelle è andato a vivere e ha ricostruito la sua pace. Una sorta di Arcadia 3.0, espressa compiutamente da opere come Praise! (Lode!), Secret Passage (Passaggio Segreto), News of Joy (Notizie di Gioia), tutte rigorosamente incorniciate da una flora rigogliosa e, ça va sans dire, da sorgenti d’acqua. «Dobbiamo trovare un modo, in mezzo alle difficoltà, di stare nella luce. Io l’ho intercettato nella natura. Gli atti divini, per me, sono una passeggiata nel bosco, la vista del mare. Cose molto semplici. Questa mostra mi ha reso molto felice e ringrazio davvero tutti. Ma ora, anche se sono stato bene, la devo salutare. Voglio tornare nella mia giungla».  
Chiara Corridori

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