Categorie: Personaggi

L’INTERVISTA/ EMILIO ISGRÒ

di - 31 Ottobre 2017
Dopo la cancellatura la teoria del Seme. Sono questi i due principali contributi di Emilio Isgrò all’arte del Novecento: nella prima si sottrae per affermare, nella seconda si ingigantisce per rendere visibile. Appaiono una la necessaria continuazione dell’altra, in un tracciato concettuale ad alto impatto emozionale. Naturalmente non tutto è meritevole di essere ingigantito e “svelato”, lo è solo ciò che porta con sé dell’altro, un significato profondo, un mondo, la vita, come il seme appunto. Cancellando ed ingigantendo Isgrò ci induce ad una metariflessione, ci invita a scorgere oltre il gesto e le apparenze, riallacciando la storia delle comunità a quelle dei luoghi, il vissuto individuale a quello collettivo. La Sicilia è il luogo in cui la sua ricerca trova la sua più alta concretizzazione, il suo naturale scenario, in un continuum tra materia e pensiero. Lo conferma Il sogno di Empedocle, il nuovo intervento site specific ideato dall’artista per la sua terra, inaugurato lo scorso 21 ottobre a Giarre, nel catanese, in occasione del Radicepura Garden Festival. Tre ciclopici “Semi di limune” in pietra lavica appaiono rigettati su tavoli dall’Etna. Ciascuno reca con sé un riferimento ad Empedocle, Verga e Pirandello. La leggenda vuole che Empedocle si sia suicidato nell’Etna e che il vulcano qualche tempo dopo ne abbia restituito uno dei suoi famosi sandali di bronzo. «Ho ritrovato il suo gemello – racconta l’artista, non senza la sua consueta, sottile ironia – l’ho fatto con l’aiuto del pastore verghiano Jeli». Un’operazione scultorea, dunque, potentemente materica, ma anche eminentemente concettuale, attraverso cui l’artista rende omaggio al genius loci in un’ottica internazionale. Un narrato poetico che sfida le leggi del tempo, attraversa epoche e personalità, ideato per unificare la storia antica e recente dell’isola, la maggiore e più suggestiva del Mediterraneo. Lo abbiamo incontrato per farci raccontare i cardini del suo complesso tracciato speculativo.
La cancellatura è oggi uno dei simboli internazionali della ricerca concettuale italiana. Uno strumento che nega per affermare, cela per evidenziare, elemento semantico ed estetico insieme. Ma qual è la genesi di questo fondamentale strumento? Che ruolo ha avuto nella sua nascita il tuo passato giornalistico?
«Sono nato artista della parola prima che giornalista. Come poeta è chiaro che quello della verbalità è stato il primo problema che mi sono posto. Nel momento in cui le arti dopo le grandi trasgressioni delle avanguardie storiche e delle neoavanguardie cambiavano di continuo pelle, ho pensato che una ridiscussione della parola in sé potesse essere un ottimo elemento da introdurre nel discorso artistico. Sono partito dall’ipotesi che si potesse fare una poesia e un’arte in cui la parola diventasse essa stessa un segno visivo. Ed è quello che esattamente è accaduto con il mio lavoro, retrocedendo a quella pittografia che è alle origini della stessa scrittura alfabetica. D’altra parte non ho operato la cancellatura in una chiave puramente nichilista come è stato letto da qualcuno (forse perché ho esposto per la prima volta il mio lavoro da Schwarz, in ambiente dada). Quella nichilista è una lettura troppo semplice, direi banale. Io, in realtà, mi sono allontanato dai modelli avanguardistici – compresi quelli dada – per proporre una ricerca in cui il momento distruttivo coincideva con quello costruttivo. Per questo ritengo di aver superato felicemente le intemperie legate al crollo delle avanguardie del secolo scorso».
Emilio Isgrò, Una indivisibile minorata, 2010, libro e tecnica mista, 77 x 103 cm.
Eppure nel suo valore estetico e decontestualizzante la cancellatura si ricollega alla stagione delle avanguardie storiche, del futurismo e del dadaismo in particolare. Pur nell’allontanamento a cui accennavi senti ancora di avere legami con quella fondamentale stagione artistica?
«Niente nasce dal niente. Newton nasce da Galileo, Einstein nasce da Newton. Tutto si lega. Qualche goccia di sangue duchampiano è filtrato nelle vene di tutti gli artisti della mia generazione. È dunque difficile che non filtrasse anche nelle mie. Detto questo io non ho mai avuto una particolare predilezione per Duchamp pur considerandolo un artista importante, perché io apprezzo gli artisti che operano molto e teorizzano poco. Questo è stato uno dei principali motivi di conflittualità con l’apparato concettuale degli anni Sessanta e Settanta. Devo ammettere che non mi sono mai sentito a mio agio tra i concettuali. Sono d’accordo con Picasso quando diceva che “a un artista piuttosto che cercare conviene trovare”». 
Eppure tu hai scritto e teorizzato molto. Penso soprattutto al volume “La cancellatura e altre soluzioni” edito da Skira nel 2007.
«Ho teorizzato quando ce n’è stato veramente bisogno. In un certo modo sono stato costretto dall’assenza di una critica che mi seguisse. Achille Bonito Oliva aveva molti strumenti per capire il mio lavoro ma ha fatto altre scelte [la Transavanguardia ndr]. Il nostro rapporto di stima reciproca è stato un rapporto parziale. Non ho avuto, come hanno avuto ad esempio gli artisti dell’Arte Povera, un critico che si occupasse a tempo pieno della mia arte. Di me non si è occupato nessuno. Ma non mi sento un negletto, la solitudine in buona parte l’ho scelta io, perché non credo nell’arte di gruppo. Quest’ultima, a parte la breve stagione delle avanguardie storiche, è stata organizzata dal mercato, che difficilmente può favorire uno sviluppo libero dell’arte e della cultura. Non credo che il mercato corrisponda necessariamente alla cultura, mentre è possibile che la cultura trovi a volte il favore del mercato. Negli anni Ottanta, con il recupero della pittura e della figurazione, io venivo indicato come l’esempio di artista da non seguire. Ho avuto un momento di offuscamento che io stesso ho assecondato occupandomi principalmente di teatro con l’esperienza di Gibellina».
Emilio Isgrò, Jacqueline
Sei tra i protagonisti della ricerca artistica italiana del secondo Novecento. Quali differenze noti tra la produzione artistica odierna e quella degli anni Sessanta e Settanta, anche alla luce del fondamentale spartiacque rappresentato dagli anni Ottanta?
«Credo che la principale differenza sia questa: quando ho debuttato io come artista non si poteva fare a meno del mercato ma c’era una classe di mercanti borghesi con una cultura pronta a recepire anche le trasgressioni che l’arte non poteva (e non può!) non offrire. Le provocazioni a quei tempi erano reali e il più delle volte costavano care. Quando ho cancellato la Treccani, ad esempio, ho scandalizzato il pubblico e non ho venduto niente. Oggi, invece, l’attitudine provocatoria è diventata normale per l’arte e per gli artisti, e i fruitori si aspettano la provocazione; provocando non si scandalizza ma si va incontro all’orizzonte di attesa del pubblico. Io piuttosto che pronunciare una bestemmia in chiesa preferisco recitare una preghiera in un bordello». 
Tu stesso hai dichiarato di non aver mai fatto gruppo, di essere un “cane sciolto”. Eppure la storiografia artistica inserisce la tua ricerca quasi esclusivamente nell’ambito della poesia visiva. Tuttavia hai sempre preferito avere una posizione defilata. Quale ruolo senti di avere nel movimento? Quali sono i tuoi legami con gli esponenti più noti della corrente: Lamberto Pignotti, Eugenio Miccini, Michele Perfetti e altri?
«Ho avuto un momento di coincidenza operativa con Pignotti e con Miccini. È durato sei mesi. Perché loro ancoravano le loro ricerche – specialmente Pignotti – alla Pop Art. Consideravano la Poesia Visiva un’espressione letteraria della Pop Art. Io volevo prendere le distanze dall’arte americana perché ero – e sono – convinto che la libertà dei popoli, quindi anche degli europei, si difenda con le arti più che con le armi. Per questo ho preso le distanze anche dalla Poesia Visiva che io stesso, con opere come Volkswagen, avevo contribuito a creare. Un’opera come Jacqueline del 1965 in quel periodo la consideravo una poesia visiva ma si tratta chiaramente di un’opera concettuale. Quindi io ho fatto esperienze di tipo concettuale che allora io stesso chiamavo Poesia Visiva. E per una decina di anni la Poesia Visiva ha coinciso con me: quasi nessuno faceva mostre. Io stesso mi sono impegnato molto perché credevo fermamente all’esplorazione del rapporto parola-immagine in vista di possibili espressioni future del linguaggio artistico. A un certo punto è però accaduto che io, in quanto poeta visivo, venissi attaccato immeritatamente per le posizioni di altri artisti che si definivano poeti visivi, specialmente il Gruppo 70. Per questo a un certo punto i poeti visivi non mi volevano più perché dicevano che ero un concettuale e i concettuali mi rifiutavano perché mi credevano un poeta visivo. Credo fosse un’operazione strumentale per eliminare una certa esperienza. Fortunatamente non ci sono riusciti».
Emilio Isgrò, Il sogno di Empedocle, Radicepura festival, 2017
Più volte si è insistito sull’impegno etico e politico della tua ricerca. Quale pensi sia il ruolo dell’artista? Ricerche in cui la componente estetica prevale su quella sociale o concettuale hanno ragione di esistere?
«Nessuno può impedire nulla. Il mondo è pieno di decoratori. Anche molta arte concettuale è puramente decorativa, nel senso che decora con le parole lo spazio. Parlo dell’arte concettuale perché è l’esperienza che ho sfiorato di più. L’arte è fatta anche di viscere sottoposte al controllo della mente. Non può essere pura intelligenza. Perché allora le intelligenze coalizzate funzionano meglio quando sono gestite direttamente dal mercato. Io ho assunto un’altra posizione rispetto a un’arte puramente estatica (più che estetica) perché credo che quel tipo di arte sia pericolosa: il pubblico, infatti, potrebbe confondere l’arte con la realtà. Io sono per un’arte che sveli i suoi meccanismi artificiali e artificiosi ma in vista di una possibile catarsi aristotelica. La cancellatura è un distacco tra chi guarda e l’arte stessa. Cosicchè il mio operare non allontana dalla vita ma consente di guardarla criticamente».
Nel 1956 hai deciso di trasferirti a Milano lasciando la nativa Sicilia. Pensi che per un artista sia necessario trasferirsi in un centro di maggiore prestigio per la sua ricerca o, al contrario, pensi che questa possa nascere ovunque?
«L’arte può essere consacrata a Milano o meglio ancora a New York, ma può nascere ovunque. I centri sono strumenti di comunicazione prima ancora che di produzione. Tuttavia mi domando se oggi, con la Rete, una distinzione tra centro e periferia sia ancora possibile. È chiaro che non bisogna farsi illusioni: qualche grosso centro bisogna frequentarlo, ma non dimentichiamo che ci sono stati grandi artisti che si sono espressi al meglio in aree geografiche circoscritte. Pensiamo a Gaudì che ha sempre lavorato a Barcellona o Morandi a Bologna. La globalizzazione non va vista come un’Unione Sovietica rediviva: è un meccanismo importante che sarebbe stupido e delittuoso negare ma che va governato».
Tu sostieni di essere “un poeta che scrive per immagini”. Ricordo Fiere del Sud, una raccolta poetica da te pubblicata ad appena diciannove anni. Dopo quell’esperienza hai scritto altri versi? Che legame c’è tra la tua ricerca poetica e quella artistica?
«Ho scritto molti versi e molti romanzi nel corso della mia vita. Alcuni pubblicati, altri no. Oggi da più parti mi chiedono di pubblicare ciò che ancora è inedito. Può darsi che lo farò… La ricerca poetica e quella artistica così come quella teatrale sono complementari, hanno pari importanza a livello espressivo: sono le facce di una stessa medaglia».
Emilio Isgrò, Credo non credo, 2010
Il Seme d’arancia realizzato sia a Barcellona Pozzo di Gotto, tua città natale, sia a Milano, tua città adottiva, in occasione dell’Expo 2015, è certamente il tuo intervento pubblico più noto e discusso. Tu hai scritto una Teoria del Seme. Puoi spiegarla?
«La Teoria del Seme attiene alla necessità di rappresentare ciò che è piccolo in una società che tende a rappresentare solo le cose grandi. Il seme è quasi invisibile. Quindi rappresentare un seme di marmo di sette metri di altezza significa rifiutarsi di partecipare alla clonazione planetaria che in alcuni artisti ha i suoi più astuti complici. Io da questo punto di vista sono rimasto fermo sulle mie posizioni. Un artista deve rappresentare l’autenticità umana. È compito degli artisti lanciare un segnale di speranza in un momento in cui la stessa arte è disperata e disperante perché troppo appiattita sulla finanza. Non è mia intenzione lanciare una filippica contro il denaro. Il denaro è necessario agli artisti per lavorare, ma voglio vedere quanto vale un’opera prima che mi si dica quanto costi».   
Tra gli elementi iconici ricorrenti della tua ricerca ultima vi sono le formiche. Che significato assumono?
«Le formiche, come le cancellature, sono sfuggite al mio controllo: a un certo punto hanno assunto significati che io non avevo previsto. Volevo trovare delle forme minime da gestire nello spazio. La formica con i suoi valori iconici si prestava bene. Ma ad un certo punto è diventata una sorta di cancellatura mobile che andando e accumulandosi nello spazio lo coprono. Sono in molti a leggere in questo modo l’utilizzo delle formiche nelle mie opere, in continuità con la cancellatura. Ho preso gli elementi minimi che la mia cultura mi offriva, gli elementi di scarto della società, senza esibirli come una povertà imposta ma come una ricchezza ancora possibile. Non ho fatto l’arte del trash come hanno fatto certi artisti che io rispetto e amo come ad esempio quelli di Fluxus. Con i mezzi minimi che avevo ho cercato di produrre l’oro. La cancellatura è una sorta di pietra filosofale».
Quali pensi siano i requisiti che un artista debba avere per raggiungere il successo? Quali consigli daresti a un giovane artista?
«Un artista deve avere talento, ma anche tanta pazienza per perseverare, perché il talento non sempre viene riconosciuto come tale. Un artista non deve agire per avere l’applauso del pubblico, ma deve agire per propria convinzione. L’approvazione di se stesso deve essere la prima che deve ricercare. Il consenso del pubblico può giungere più tardi. Io stesso lo gradisco ma non ho mai lottato per avere un facile applauso».
Carmelo Cipriani

Nato a Terlizzi nel 1980, è giornalista, critico d’arte e curatore indipendente. Dopo la laurea in Conservazione dei Beni Culturali presso l'Università degli Studi di Lecce, si perfeziona sull'Arte del Novecento all'Università degli Studi di Bari. Già cultore della materia in Museologia presso l’Università degli Studi della Calabria e docente a contratto presso l’Accademia di Belle Arti di Vibo Valentia, ha condotto studi specialistici e curato mostre per Soprintendenze, istituzioni e musei.  

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