Categorie: Personaggi

L’intervista/Enrico Lunghi | Mudam, l’altro Lussemburgo. Glocal!

di - 2 Marzo 2013

Dal 2009 Enrico Lunghi è direttore del Mudam, il museo di arte contemporanea progettato da Ieoh Ming Pei, l’architetto nella Piramide del Louvre di Parigi, per il Granducato del Lussemburgo. Paese non particolarmente interessato alla creatività del presente. Ecco quello che racconta ad Exibart.

Quando nasce il Mudam, quali sono le caratteristiche architettoniche e che cosa ospita?

«Il progetto comincia nel 1989, ma l’inaugurazione è solo nel luglio 2006, dopo lunghe polemiche per fortuna oramai passate: molti lussemburghesi non lo amavano poiché l’arte contemporanea non appariva come una necessità in questo Paese. L’architetto è il famoso Ieoh Ming Pei, che ha realizzato questo bellissimo edificio tenendo conto dei vestigi dell’antica fortezza lussemburghese sui quali è costruito il Mudam. Il museo ospita la sua collezione e mostre temporanee d’arte contemporanea».

Quale pubblico lo frequenta abitualmente?

«Ospitiamo esclusivamente arte contemporanea, quindi siamo un museo di nicchia con un pubblico molto diversificato: gli abitanti cosmopoliti del Gran Ducato, giovani, turisti e semplici curiosi. Più del 30 per cento del nostro pubblico viene dall’estero».

Come si integra il museo con il territorio? E come dialoga con i cittadini lussemburghesi refrattari all’arte contemporanea?

«Sono convinto che un museo debba innanzitutto dialogare con i propri cittadini, questa è stata la sfida maggiore della nostra nuova comunicazione su cui ho lavorato al mio insediamento per far capire al pubblico l’identità del museo, valorizzando anche la nostra giovane collezione che era poco conosciuta. Dopo le polemiche iniziali, ora molti lussemburghesi sono fieri del museo, siamo riusciti a far capire che un luogo come questo è unico e che è meglio costruire una realtà nuova, piuttosto che avere una copia (mal fatta di solito) di musei già esistenti altrove. Non è stato facile, ma mi pare che abbiamo avuto ragione nello scegliere di non accettare compromessi».

Quali sono stati gli errori gestionali o mostre non capite dal pubblico che non farebbe più?

«È difficile rispondere, siamo ancora in fase di sperimentazione, tutto quello che facciamo è nuovo per noi e tutto ci fa capire meglio come continuare a valorizzare il museo. All’apertura, il Mudam aveva bisogno di una comunicazione internazionale che è stata poco capita dal pubblico locale, ma era necessaria per attirare l’attenzione del mondo dell’arte su un piccolo Paese come il nostro. Adesso i messaggi sono indirizzati prima ai cittadini, poi al pubblico internazionale».


Quali mostre sono in programma per il 2013 e quali altre attività culturali promuovete per vivacizzare il museo?

«Fra poco apriamo “L’image Papillon”, una bella mostra che si riferisce allo scrittore tedesco W.G. Sebald e alla sua utilizzazione di immagini che giocano con la memoria. Seguirà la mostra monografica di Lee Bul e sto maturando altri progetti, con Folkert de Jong o Thea Djordjadze, per esempio. Inoltre esporremo una parte della nostra collezione a Seoul: questo non è mai capitato a un museo lussemburghese. Collaboriamo con la scuola e l’università, investiamo nelle attività didattiche per bambini, giovani e adulti. Per questi ultimi abbiamo creato la Mudam Akademie, un corso accreditato dal ministero dell’educazione nazionale come “formazione continua”. Si tratta di iniziative piuttosto innovative, lo dicono molti colleghi di musei internazionali. E lo conferma il fatto che il pubblico è in aumento».

Il Mudam è finanziato interamente dallo Stato o si avvale del sostegno di privati? Come riesce a far quadrare i conti in questo momento di crisi?

«Sono arrivato al Mudam con la crisi, dunque non ho mai conosciuto un periodo di opulenza finanziaria. Il Ministero della Cultura è il nostro principale sostegno, ma il programma lo decidiamo interamente noi e siamo sempre riusciti a tenerci lontano dalle interferenze politiche. Inoltre riusciamo ad avere più del 15 per cento grazie ad altre entrate. Mi pare sia molto rispetto ad altri musei della nostra categoria. La Fondazione Leir è un grande mecenate per noi, ma sono una quindicina di società private a sostenerci a Lussemburgo».

Nonostante questi buoni programmi, il Mudam però non “decolla” nel circuito dei musei internazionali, non richiama addetti ai lavori e giovani come invece accade per molti altri musei in Europa. Secondo lei perché?

«Non bisogna perdere d’occhio la situazione singolare del Lussemburgo: fino a qualche anno fa, qui non esisteva il turismo culturale, e poi, qualunque sia la qualità delle mostre che realizziamo, abbiamo molte difficoltà a farle conoscere al di fuori delle nostre frontiere. Qui, l’estero comincia a venti chilometri in qualsiasi direzione, e sia la stampa specializzata che “gli addetti ai lavori” internazionali ci considerano sempre come un “Paese esotico”, difficile da raggiungere. Invece, con 76.500 visitatori l’anno, proporzionalmente alla popolazione della città (100.000 abitanti) o del Paese (500.000) superiamo in percentuale le cifre di molti musei».

Se avesse la bacchetta magica, una totale autonomia finanziaria e poteri decisionali cosa farebbe per valorizzare il Mudam in un circuito internazionale?

«Inviterei molti colleghi di musei, curatori, critici e giornalisti a venire tre o quattro giorni a Lussemburgo e a dare un’occhiata più approfondita a quello che facciamo, qui al Mudam, al Casino Luxembourg e in qualche altro posto, perché sono pochissimi a conoscere le realtà locali. Per esempio, penso che in proporzione l’arte contemporanea di qualità internazionale sia più presente e più vicina alla popolazione lussemburghese che in qualsiasi altra città, anche perché ospitiamo molte rassegne di arte di strada».

A Lussemburgo c’è un altro centro per l’arte, il Casino Luxembourg, che differenza c’è tra questo e il Mudam?

«Il primo è uno spazio espositivo più sperimentale, dinamico e aperto alle nuove espressioni della creatività, mentre il Mudam è un museo con una collezione permanente di arte contemporanea di quasi 400 opere».

Investire nella cultura, nella promozione dell’arte contemporanea ha ancora un senso nell’epoca della globalizzazione e della rivoluzione informatica e digitale?

«Finché il museo s’inventa la propria via e mostra artisti che danno forma ad intuizioni e pensieri, senza cercare di seguire mode o pressioni del mercato, ha senso. Perché permette al pubblico di distanziarsi, poeticamente, dalla realtà quotidiana».

Oltre al Mudam, qual è il suo museo preferito e perché?

«Dalle grotte Chauvet e Lascaux al Van Abbe di Eindhoven, passando dal Louvre e dall’Accademia di Venezia. Potrei citarne centinaia, per ragioni non solo professionali, ma anche sentimentali, come quello dell’opera Notre-Dame di Strasburgo per esempio».

Che spazio hanno nel Mudam i giovani artisti lussemburghesi, la Street art, le installazioni ambientali multimediali e la Net art?

«Mi pare sia giusto seguire attentamente la scena locale, cercando di valutarla rispetto alla situazione internazionale e magari aiutare i giovani a lanciarsi fuori dalle frontiere ristrette del nostro Paese. Ma il Mudam non può fare tutto, avremmo bisogno di aiuto da parte delle istituzioni».

A quale giovane artista lussemburghese farebbe una mostra personale al Mudam?

«Il Casino Luxembourg presenta attualmente Marco Godinho, il Mudam ha presentato un progetto personale di Tina Gillen l’anno scorso. L’anno prossimo faremo un progetto con Su-Mei Tse. Per una importante retrospettiva del tipo di quelle di Sanja Ivekovic, Lee Bul o Sylvie Blocher, dobbiamo aspettare. Non abbiamo una grande quantità di artisti in un piccolo paese, e Michel Majerus non c’è più».

Anche quest’anno il Lussemburgo parteciperà alla Biennale di Venezia, con quale progetto?

«Si, presentiamo una giovane artista, Catherine Lorent, che lavora a Berlino. Il progetto si chiama Relegation e sarà un tuffo in un universo di pittura barocca, decoro teatrale, musica e performance borderline. Non sappiamo ancora come andrà a finire, ma è questo il bello!»

Jacqueline Ceresoli (1965) storica e critica dell’arte con specializzazione in Archeologia Industriale. Docente universitaria, curatrice di mostre indipendente.

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