16 marzo 2013

L’intervista/Fabio Cavallucci Se l’Ucraina va in Polonia

 
Si intitola “Ukrainian News”, e debutta stasera al Centro per l'Arte Contemporanea Castello Ujazdowski di Varsavia. Esatto, una mostra dell'ultima arte ucraina in Polonia. Pace fatta tra due stati accomunati dallo stesso passato, ma da un presente a diverse velocità? A chiarirci le idee sulla vita dell'arte a Est ci pensa Fabio Cavallucci, direttore dell'Ujazdowski

di

Evgenia Belorusets, From the cycle -Brick factory tour-, 2011-2012 Colour photography Courtesy of the Artist

È curata da Marek Goździewski, e presenta una serie di opere e progetti firmati, tra gli altri, da Yevgenia Belorusets, Nikita Kadan, Zhanna Kadyrova, Alevtyna Kakhidze, Lesia Khomenko, Oleksandr Kurmaz, Volodymyr Kuznestov, Maksym Mamsikow, Boris Mikhailov, Roman Minin, R.E.P., Mykola Ridnyi, Andriy Sahaydakovskyi, Arsen Savadov, SOSka Group, Visual Culture Research Centre, Volodymyr Vorotnov e Anna Zvyagintseva. Non vi dicono granché questi nomi? Nulla di strano: si tratta dell’avanguardia ucraina, ovvero di quel Paese spesso salito alle cronache dell’arte per l’indisponenza della classe politica e delle istituzioni nei confronti delle manifestazioni più “ribelli” del contemporaneo, che non per la sua promozione.  Certo, un bel colpo dall’Est quest’anno è arrivato dalla Biennale di Berlino, ma se si pensa all’Ucraina viene in mente Mister Pinchuk, la sua Biennale curata da David Elliott, al Mystetskyi Arsenal e magari non molto altro. Forse perché, quando si pensa ad un Est che non sia la Cina o il Medio Oriente, si tende ancora un po’ a generalizzare, confondendo anche geografie che invece, seppur con un passato simile, vivono esperienze molto diverse sul presente. L’arte viene conseguentemente, un po’ come il risultato di quello che la nuova Europa sta costruendo in questi anni. L’Est, anzi, il profondo Nord-Est europeo, è forse oggi una delle zone più fertili dove nascono tendenze e convivenze. Già, perché qui sembra vigere una strana democrazia dell’arte o, alternativamente, una grande etica. Basta spostarsi di qualche chilometro. Fabio Cavallucci, direttore del Castello Ujazdowski, la sede che occupa la “trasferta” ucraina dell’arte in terra polacca ci aiuta a sciogliere qualche dubbio sulle questioni precedenti, e a tracciare una sorta di panorama “unificato”, che ci appare come una ventata di aria fresca. Esportabile? Forse, ma solo a patto di un paio di imprescindibili condizioni.
Anna Zvyagintseva, There are women who have free time only at night - while husband sleeps, from the series -Women’s workshop-, 2013 Mural, Courtesy of the Artist

L’Ucraina in mostra in Polonia. Perché? Potrebbe leggersi come un gemellaggio di due territori che hanno avuto una storia non troppo dissimile da due decenni a questa parte, che hanno subito il medesimo isolamento e lo stesso risveglio culturale “politicizzato”? 
«In realtà la storia dei due Paesi è stata molto più vicina in passato che negli ultimi decenni. In qualche modo Polonia e Ucraina sono nazioni cugine, che hanno avuto anche un lungo tempo di unificazione, e periodi di scontri e guerre reciproche. Un po’ come l’Italia e la Francia. Ma la storia degli ultimi vent’anni è del tutto diversa. In Ucraina si è sviluppata un’oligarchia postsovietica che detiene le redini dell’economia e dello stato, in Polonia una democrazia basata sulla frammentazione del potere, a volte persino eccessiva. In Polonia si sono stabilite le basi per una libertà espressiva unica in Europa, in Ucraina le espressioni artistiche a volte possono ancora incorrere in forme di censura. In ogni caso i rapporti culturali tra i due Paesi si stanno ricostruendo in questi anni. E questa mostra fa parte di un processo di reciproca conoscenza». 
Boris Mikhailov, Untitled, from the series -Promozona-, 2011 Colour photography, 190 x 125 cm, Courtesy of the Artist Boris Mikhailov, Untitled, from the series -Promozona-, 2011 Colour photography, 190 x 125 cm, Courtesy of the Artist

È direttore del Castello Ujazdowski dal 2010, ed ex Membro del Board della Fondazione Manifesta, che è stata annunciata per il 2014 a San Pietroburgo, città “spartiacque” tra Est ed Ovest: come vede dall’interno la situazione dell’arte nell’Est europeo? 
«Direi che non si può parlare di caratteri unitari. Ci sono diverse tendenze, alcune della quali nazionali, altre sovranazionali. Spesso si osserva un carattere di critica alla società, che probabilmente deriva dalla situazione di oppressione che la cultura ha subito durante il comunismo ma in alcuni stati, come in Russia e Ucraina, molti artisti hanno già accettato di diventare rappresentanti del potere dominante. L’attrazione del successo e del denaro in qualche caso sta creando dei mostri. Devo dire che questo accade meno in Polonia, dove in generale gli artisti mantengono un comportamento etico fermissimo». 
In Ucraina convivono due canali: quello dell’arte che potremmo definire connotata politicamente, più “attivista” e rivoluzionaria, le cui forme sono state in qualche modo sdoganate dalla Biennale di Berlino, e le possibilità più “mainstream”, ed economicamente più potenti, legate a figure come quella Victor Pinchuk. Anche questa situazione è probabilmente specchio della “nuova Europa” dell’Est. Com’è il clima tra gli addetti ai lavori? C’è un guardarsi reciproco, ci si ignora, si cercano collaborazioni o resta una profonda frattura, anche ideologica? 
«È quasi paradossale, ma in realtà le due anime convivono spesso quasi perfettamente. Nel senso che gli stessi artisti che elaborano forme di arte critica, come ad esempio il gruppo R.E.P. sorto con la Rivoluzione Arancione del 2004, espongono poi all’Arsenale Mystetskyi, centro d’arte nello spazio più grande d’Europa, 60mila metri quadri, espressione del potere politico presidenziale, e al Pinchuk Art Center, espressione dell’oligarchia economica. C’è un conflitto, un’ambiguità in questo, che però non sempre vengono riconosciuti. Ma non mancano anche casi opposti, in cui vengono attuate azioni censorie. Nel febbraio dello scorso anno la mostra “The Ukrainian Body”, realizzata dal Centro culturale dell’Università di Kiev, è stata chiusa dal rettore dell’Università. Anzi, il Centro stesso è stato soppresso». 
Hostynny Dvir, January 2013, photo Oleksandr Burlaka, Courtesy of the Artist. Hostynnyi Dvir è un edificio del XIX secolo a Kiev, che per alcuni anni ha funzionato come un luogo di incontro tra artisti, attivisti e intellettuali. L'estate del 2011 l'edificio è stato messo in lista per una ricostruzione proposta da una holding che intende convertire l'Hostynnyi Dvir in un centro commerciale. Da maggio 2012 un gruppo di attivisti ha occupato lo stabile con lo scopo di impedire la realizzazione di questo progetto. Hostynnyi Dvir è diventato un simbolo di ciò che sta accadendo in Ucraina, del conflitto tra mercato e società.

Che cosa metterà in scena “Ukrainian News”?
«Molti degli artisti di “The Ukrainian Body” sono presenti in “Ukainian News”. Il curatore Marek Goździewski ha voluto indagare la parte più critica dell’arte ucraina. Quella che presenta ancora elementi di disturbo per il potere. Del resto l’arte, in Ucraina, è anche un mezzo con il quale attivare una discussione politica che non sarebbe altrimenti presente nella società. Insieme a giovani come Anatolii Byelov, Nikita Kadan, Zhanna Kadyrova, Alevtyna Kakhidze, sono però esposti anche alcuni riferimenti più storicizzati, come i fotografi Boris Mikhailov e Arsen Savadov. Non mancano poi i gruppi, come si diceva, dai R.E.P. ai SOSka Group, dal Visual Culture Research Centre al Grupa Predmetiv, questi ultimi, architetti, che hanno schedato i monumenti e gli edifici costruiti a Kiev dal regime comunista». 
Arsen Savadov, Collective red, 1999, Photography, 109 X 134 cm Courtesy of the Artist

In Polonia lo scorso 2012 sono accadute un paio di vicende che vorrei ricordare: da un lato l’esposizione di Him, al Ghetto Ebraico di Varsavia, dall’altro gli studenti cattolici che, ad inizio anno, avevano aspramente contestato la mostra di Katarzyna Kozyra al National Museum di Cracovia. Più che le polemiche forse in questo caso è interessante chiedersi se il contemporaneo, per i cittadini, sia una dimensione essenziale di conoscenza: l’arte, insomma, funziona come catalizzatore sociale a tutti i livelli? 
«L’arte avrebbe una funzione di catalizzatore sociale ovunque. Nei Paesi in cui il sistema di mercato è molto sviluppato, ha perduto molta della sua carica eversiva e del suo potere di attivare dibattiti. In Polonia questo aspetto è ancora presente, ed è ciò che la rende una delle scene artistiche più interessanti oggi». 
Vede qualche connivenza tra l’attuale situazione italiana e il risveglio dei Paesi dell’Est o nella Penisola si è destinati a restare nel buco nero dell’indifferenza, come raccontato nel documentario di Bill Emmott e Annalisa Piras Girlfriend in a coma?
«Più che il piano artistico, il problema italiano riguarda la condizione generale. L’Italia avrebbe bisogno di un colpo di coda, uno scatto di volontà per superare inutili conflitti e lavorare sodo per il futuro. Spero solo che non sia troppo tardi».

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