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19
maggio 2014
L’intervista/Flavio Favelli Istanbul per noi
Personaggi
Flavio Favelli è il nuovo artista coinvolto in “Anteprima#3”, la residenza turca dell’Associazione romana AlbumArte, nella Hall del Galata Rum Okulu di Istanbul. In scena quattro installazioni, realizzate “city-specific”. Lo sguardo resta rivolto ai temi più cari all’artista, con l’ibridazione di immagini e materiali. Ma stavolta il discorso difficilmente può prescindere dalla storia del Paese. Non solo culturale, ma anche politica e sociale
Si intitola “Grape Juice” il nuovo progetto di Flavio Favelli, realizzato a Istanbul per la terza edizione di “Anteprima”, la residenza organizzata e prodotta da AlbumArte, l’associazione no-profit di Cristina Cobianchi, diretta da Maria Rosa Sossai. La mission di AlbumArte è far conoscere gli artisti italiani all’estero, coinvolgendo le comunità intellettuali locali e le istituzioni pubbliche e private, in questo caso l’Istituto Italiano di Cultura, l’Ambasciata d’Italia, la Bilgy University, la Yapi Kredi Cultural Center, la Galata Rum Okulu.
A cura di Vittorio Urbani, stavolta la riflessione di Favelli in questo mese di residenza e arte è scaturita dall’immagine dell’etichetta di una vecchia lattina di succo d’uva. La bevanda, prodotta negli Stati Uniti e di proprietà della Coca Cola Company, si chiamava Hi-C. La stella bianca e la lettera “C” stampata sull’etichetta hanno ricordato a Favelli la bandiera turca. Da qui è nata Grape Juice, opera che ha dato il titolo alla mostra, e dalla quale partiamo per una conversazione con l’artista. Il quale, nonostante si dica sempre interessato all’estetica, stavolta si è trovato a dover mettere le mani in pasta – come “straniero” – anche con una storia più scottante, quella del Paese mediorientale, sconvolto in questi giorni da una nuova tragedia nazionale.
L’anno scorso, a Milano, in una piccola mostra curata da Roberto Ago durante il Salone del Mobile, era esposta una “Fanta-Cola”, un tuo oggetto creato proprio unendo due bottigliette da 33 cl. di Fanta e Coca Cola. I riferimenti erano anche al Piano Marshall e all’idea che questa politica altro non fu che un metodo per rendere le economie europee funzionali a quelle statunitensi. Andy Warhol parlava della Coca Cola come bevanda democratica, perché la beve il Presidente e l’homeless. Tu che rapporto hai con la Coca Cola? A Istanbul la tua mostra è stata generata dall’etichetta di una lattina di succo d’uva prodotto negli Usa dalla Coca Cola Company, e anche alla fine della mostra ci sarà un “reperto” molto particolare…
«Mi ricordo che ero in una corsia di un Cash & Carry insieme ad altri, facevamo una grande spesa per il bar del Link, era la fine degli anni ‘90 a Bologna, compravamo qualche decina di cassa alla volta di birra e bibite, arrivati alla Coca il responsabile bar disse: boicottiamola e così prendemmo la Pepsi. Più avanti c’è Pepsi si rivelò profetico. La Coca Cola rimane più o meno se stessa, è sempre quella, e questo è importante, amavo il vecchio logo della Pepsi, ma quando ha cambiato mi ha deluso. Sono abitudinario e troppi cambiamenti mi infastidiscono. Però i riferimenti della Fanta-Cola sono semplicemente estetici, come in tutte le mie opere non cerco mai significati a sfondo sociale, politico. Quindi tagliare due bottiglie (quella della Fanta di quegli anni, arancione bruno con anelli di vetro a rilievo e scritta in smalto penso che sia uno degli oggetti più straordinari che abbia mai incontrato in vita mia) e metterle insieme, è forse un tentativo di appropriarsi di un tempo passato. Mettere le mani nelle viscere delle bottiglie e degli oggetti e soprattutto di quello che rappresentano, è un momento per me importante, intenso, perché certi oggetti – più di altri – rappresentano il tempo che ho vissuto e questo vuole dire parlare con le loro anime, ma non è magia, è che le anime degli oggetti siamo noi ancora più veri. Io vivo con la bottiglia di vetro della Coca e della Fanta e queste saranno sempre con me. Aggiungo che amo le bottiglie, ma non vado matto per il contenuto, avrò bevuto fino ad ora sì e no 40 litri di Coca, 50 di Fanta e una ventina di Pepsi».
Per questa mostra hai prodotto quattro pannelli dipinti a smalto che raffigurano simboli classici del Paese e particolari di banconote turche degli anni ’70. Immagino sia in riferimento alla società e al suo cambiamento “originario”, che ha portato Istanbul ad essere una delle metropoli più mutevoli di questi anni ’10, snaturandola e, per quanto possibile, omologandola.
«Come dicevo, cerco immagini a cui mi dedico perché evocano altre immagini, ricordi, storie e soprattutto passioni. Mi piacciono i contrasti perché sono ambigui e mettono in crisi le certezze. Le banconote sono una delle prime cose che fa un Paese e sui simboli ci si gioca molto. Mi piace vedere il Padre dei Turchi Ataturk vicino ai decori di tulipani e garofani che sono disegni di un lontano passato o insieme a Maometto II nello stesso foglio da mille lire turche. Quanti significati, quanti segni insieme e contraddizioni, confusioni: gli stati, le società sono dei gran calderoni e tutto fa brodo. Ho disegnato un grande tulipano, nero, su una grande lamiera arancione. A noi che stiamo di qua, verrebbe in mente l’Olanda, la prima volta che vidi la sua maglia arancione fu nella TV a colori dei bar a Riccione era la finale con l’Argentina del ‘78, era con mio nonno che amava la Lowembrau con leone rampante, allora Riccione era una colonia tedesca».
Ancora, negli anni ’70, dove ora è sorto il Museo dell’Innocenza di Pamuk, viveva la famiglia Keskin, che ha raccolto tutto quello che potesse rappresentare una “memoria” di loro interesse, un po’ come avveniva – nella letteratura e nel cinema – ad un altro giovane protagonista (originario dell’Ucraina, di casa negli Stati Uniti): Jonathan Safran Foer, di “Ogni Cosa è illuminata”. Hai raccolto, insieme all’architetto Özelmas del Museo dell’Innocenza, per un altro progetto di questa residenza, una serie di pannelli di ferro riciclati per creare un container al Galata. Cosa vuoi metterci dentro? Tutte le memorie che in questi anni hai riportato alla luce?
«La lamiera arancione è proprio del “container” che ho costruito. Ho trovato dei bellissimi pannelli di lamiera in una delle discariche dove mi ha portato Murat. Molti raccoglitori di ferro stanno in Asia e per andarci ci vuole tantissimo tempo, il traffico qui è un incubo. Sono soddisfatto di quest’opera, The Black Tulip, di un arancio un po’ arrugginito su cui affiora un vecchio intenso blu. Mi soddisfa perché mi dà un intenso piacere psichico e questo credo che sia per me necessario. In questo caso mi soffermo sulla forma esterna del cassone, non ho pensato all’interno. È un raro equilibrio, tanto semplice, quanto complesso, credo, di un’opera riuscita. In questo caso il mondo si divide in due. Chi, come il custode turco che assisteva al montaggio, rimane sorpreso dal fatto che si possa perdere energie e tempo a costruire un grande parallelepipedo di lamiere vecchi, arrugginite e quindi brutte e chi percepisce una tensione fra gli stimoli visivi e di significato che vede».
Sarebbe azzardato definirti un “archeologo con licenza poetica”?
«Non mi piace tanto la parola Archeologia perché comunemente si riferisce ad un Passato con la P maiuscola, le Grandi Civiltà, l’Arte. Io amo il mio tempo e soprattutto il tempo della mia infanzia e adolescenza perché da artista, penso che sia unico e irripetibile. Trasformo gli oggetti di quel tempo e diventano arte. Poi, non so se per caso, è stato un tempo di un’intensità straordinaria per il nostro Paese e non solo. E poi gli archeologi vestono sempre colori chiari, sabbia, cachi, che insieme ai colori spallettiani, detesto. Penso che l’Archeologia nel nostro Paese abbia fatto grandi danni, per intenderci io avrei lasciato nel mare i Bronzi di Riace, ma questa è una storia complessa e lunga, magari ne parleremo con calma un’altra volta. Diciamo che voglio rivivere per sempre la storia che ho vissuto».
Chiudo con le “cartoline”: hai messo all’ingresso una veduta dello skyline di Istanbul all’alba o al tramonto, immagine classica e stereotipata del “sapore e mistero d’Oriente”. C’è qualcosa che mi ricorda i frame della New York deserta nell’alba di Vanilla Sky, quasi come se ogni città fosse solo una cristallizzazione del sogno che è chiamata ad evocare. Che rapporto hai con le metropoli e cosa hai scoperto di questa “tua” Istanbul?
«Questa cartolina che ho ingrandito è la sagoma delle classiche moschee al tramonto, quasi fossero di cartone. È un’immagine struggente, mielosa, romantica, ma di grande fascino. Il Corno d’Oro e la luce fanno il resto. Non ho conosciuto bene Istanbul, come non si può conoscere una città in un mese. Ma chi conosce una città? Chi ci abita? Spesso ci riferiamo alle note dei viaggiatori per comprendere un luogo, a gente di passaggio, non ai suoi abitanti. Io ho abitato per più di trent’anni a Bologna, ma conosco solo quello che ho vissuto, ho conosciuto via Guerrazzi angolo San Petronio Vecchio e solo quello che ho voluto incontrare. Forse è importante tradurre lo spirito di un luogo e questo può avvenire anche dopo poco tempo. Sandokan è tanto vero quanto immaginario. Pochi giorni fa la Turchia ha proclamato tre giorni di lutto per i morti delle miniere. Ci sono stati scontri in città e gli elicotteri insistevano nel cielo e mi sono sentito fortemente estraneo anche se ero nella parte europea di Istanbul».
Flavio Favelli da tempi non sospetti è il miglior esempio di giovane indiana Jones. E quindi rielaborare il feticismo del passato come modo per leggere e gestire il presente. Una trappola per giovani man tenuti in ostaggio dal passato, e dalle generazioni passate.
Caro Luca Rossi,
giudichi con grande superficialità una questione ben complessa che è il passato. In letteratura butteresti nel cesso Proust e Pamuk -per stare in tema con Istanbul-.
Io poi non voglio leggere nè gestire il presente col passato, questa è una tua forzatura.
Non conosci la mia opera se non con semplici stereotipi.
Se ne vuoi discutere in modo serio e darmi la possibilità di replica, perchè non crei un incontro? Hai due estimatori come Di Pietrantonio e Cavallucci che sono nei musei, non dovresti avere difficoltà a organizzare un dibattito, come di solito si fa quando si vuole analizzare e discutere un tema in modo approfondito. Cogli la possibiltà che ti offro per uscire dal mondo dal commento della mutua.
Flavio Favelli
Ciao Flavio,
penso di conoscere il tuo lavoro, ma colgo volentieri il tuo invito. Provo a scrivere a Di Pietrantonio, con Cavallucci c’è sempre troppa carne al fuoco.
Se rileggi il mio commento ho scritto “da tempi non sospetti”. Ma sarò felice di incontrarti e palrarne dal vivo. Non ho la tua mail, scrivimi a whiteblog.rossi@gmail.com