Categorie: Personaggi

L’intervista/Francesco Arena

di - 23 Settembre 2015
Da Roma a Milano, ovvero da Monitor a Raffaella Cortese. L’artista pugliese inaugura la sua nuova stagione con quattro mostre. Ma soprattutto ci racconta il suo lavoro.
Inauguri da Raffaella Cortese, a Milano, la tua prima personale in galleria, utilizzando tutti e tre gli spazi espositivi. La mostra “sette, uno, quattro” prende in prestito proprio il numero civico di questi spazi. Nel comunicato stampa si sottolinea la tua nazionalità italiana, come mai? È così necessario specificare la nazionalità di un artista oggi?
«Forse nel mio lavoro emerge l’essere italiano per le tematiche affrontate, ma anche perché sono un “italiano banale” in un certo senso, cresciuto in una famiglia cattolica con un nonno democristiano, con una visione di sinistra, senza particolari radici multiculturali, o forse perché sono stato il primo della mia generazione ad interrogarmi sulla storia così recente del mio Paese. Dal mio punto di vista ha senso parlare di un artista italiano. Noi italiani abbiamo il nostro retroterra culturale, abbiamo letto i libri di Fenoglio e di Pavese, probabilmente un tedesco avrà letto Heinrich Böll, ed è una differenza evidente, che ricerco e che mi piace. Io non credo alla globalizzazione della cultura e dell’arte, assolutamente. Ma bisogna anche dire che l’arte ha un linguaggio universale anche quando parla di cose specificatamente nazionali, perché ad un certo punto le trascende».
Il lavoro che esponi al civico quattro è caratterizzato da una frase estrapolata da un testo di Susan Sontag: unremitting banality and inconceivable terror. Perché l’hai ritenuta così importante da inserirla in una tua opera?
«”Banalità persistente e terrore inconcepibile” è la definizione che lei ha dato del tempo in cui viviamo. Che poi è calzante con l’avvenimento dell’11 settembre. Terrore inconcepibile ma banalità dilagante. L’ho scritta su di una lastra di granito di 400 kg. Sono tre lavori per tre spazi. Sono tre nuovi lavori molto grandi, e questo in particolare comporta anche dei cambiamenti strutturali nella Galleria Cortese. È un’opera che aveva bisogno di due ambienti e che doveva attraversarli. Quindi la sala al civico quattro che ha due ingressi è stata divisa in due stanze adiacenti ma non comunicanti, attraverso la costruzione di una parete. Per vedere l’opera nella sua complessità bisogna entrare in una, poi uscire per strada, ed entrare nell’altra da una parte diversa».

In che senso si parla di banalità? La banalità del quotidiano?
«Sì la banalità del quotidiano, ma anche la banalizzazione delle tragedie. Credo che questa frase sia calzante per ogni epoca contemporanea. Noi non possiamo realmente capire come era concepito un evento del passato nell’esatto momento in cui è accaduto. Credo che ci siano sempre due modi diversi di guardare un evento storico, lo sguardo del contemporaneo che guarda il suo tempo e quello di chi viene dopo, e questa visione non può essere uguale».
Dunque la galleria Cortese, internazionale per eccellenza, ha fatto una scelta italianissima con te. Mentre la galleria Monitor si orienta sempre più su artisti stranieri. Il tuo rapporto con Paola Capata si è concluso dopo tanti anni. E oltre te, anche Antonio Rovaldi e Ra di Martino hanno lasciato questa galleria che si è contraddistinta inizialmente proprio per il sostegno di giovani artisti italiani. Cosa è successo?
«Penso che l’internazionalità di una galleria non vada valutata rispetto al numero di artisti stranieri con cui questa lavora ma dal lavoro che fa. Monitor ha fatto e continua a fare un lavoro significativo su una generazione di artisti non solo italiani. Paola Capata negli undici anni in cui abbiamo lavorato insieme ha seguito sempre con attenzione il mio lavoro, siamo sempre stati in sintonia, ma questo non significa che le cose non possano mutare, e cambiare galleria può accadere nella vita di un artista, è come quando uno scrittore cambia la sua casa editrice è nella natura delle cose».

Nella tua considerazione di un fatto storico ritroviamo spesso un punto di vista personale, che fa perno sulla coscienza di ciò che è accaduto. Penso che il tuo lavoro abbia più a che fare con una “coscienza storica” piuttosto che una “memoria storica”, è così?
«Hai detto una cosa fondamentale che differenzia il mio lavoro, ovvero il punto di vista. Io distinguo la memoria in due tipi: una personale e una collettiva.  Quella collettiva legata ai grandi eventi che casualmente un numero di persone si trovano a condividere, memoria che viene tramandata attraverso la storia, poi nello stesso tempo ci sono milioni di memorie personali tante quanti sono gli esseri umani. Tutte queste piccole memorie personali si inseriscono nel racconto collettivo della memoria condivisa. Ed è interessante per me pensare che durante l’accadimento di un evento tragico, ognuno di noi probabilmente ha vissuto qualcosa di bello e di forte che lo lega a questo evento, ma che si differenzia da esso. Per esempio cosa stavi facendo tu l’11 settembre 2001 quando sei venuta a conoscenza della caduta delle Torri Gemelle? È molto probabile che quel giorno, o la sera prima, c’è stato un momento piacevole che ricorderai insieme a quella tragedia. La tua storia personale non ha niente a che vedere con la storia condivisa da tutti, quella collettiva. Proprio questo mi interessa, questa schizofrenia che ognuno di noi vive. Questo sguardo strabico che ci permette di osservare gli eventi della storia e contemporaneamente la nostra storia. Il punto di vista è il fulcro del mio lavoro. Il rapporto che si ha verso un fatto accaduto rispetto al proprio aspetto anche fisico, perché noi percepiamo la realtà attraverso una somma di esperienze, attraverso il nostro background culturale ma anche attraverso ciò che siamo fisicamente ed emotivamente in quel dato momento. La storia del singolo può interessarmi perché è l’esempio della storia di tanti altri. Io cerco la moltitudine. Anche quando ho lavorato sul caso Moro, o su Pinelli, o quello di Carlo Giuliani, non ho provato una particolare affezione nei confronti di questi personaggi, sono dei personaggi in un certo senso irreali, diventati dei simboli anche loro, raccontati come un coacervo di sensazioni e avvenimenti. Ecco perché mi interessava la cella di Moro, la cella è il luogo della trasformazione, il luogo dove Moro smette di essere quello che era per diventare un’altra cosa. Da un personaggio disumano della politica diventa attraverso la cella una vittima umana. E noi abbiamo bisogno di questi simboli per una questione di empatia con un fatto accaduto».

A proposito della cella di Moro e di affinità con altri artisti, mi viene in mente Alfredo Jaar e la cella di Gramsci presentata da Lia Rumma nel 2004 a Milano, proprio nello stesso anno in cui la tua  “cella di Aldo Moro” viene presentata a Roma da Monitor. Lui è stato un tuo riferimento?
«Nel 2005 è stato anche mio professore alla Fondazione Ratti! Conosco molto bene Jaar e il suo lavoro, abbiamo avuto un intenso confronto dialettico. Abbiamo un modo molto diverso di guardare le cose. Il suo, a mio avviso, è uno sguardo molto ideologico che può avere forse una generazione diversa dalla mia, di una sinistra internazionale. Ma è indubbio che le tematiche affrontate sono molto simili. E ti assicuro che quello fu un caso, io non conoscevo il lavoro che stava facendo da Lia Rumma e lui neanche il mio da Monitor. In un confronto a riguardo lui mi chiese come si faceva a capire che quella era la cella di Moro? Inizialmente mi è sembrata una domanda assurda. Gli dissi che c’è la possibilità di informarsi tramite un comunicato stampa o testi, interviste, l’opera non può spiegare didascalicamente tutto. Poi ho capito cosa volesse dire, ed è una cosa che mi chiedo ogni volta che realizzo un’opera nuova».
E allora quali sono i linguaggi e gli artisti con i quali ti senti affine o che segui?
«Trovo il mio lavoro vicino a quello della Minimal Art. Penso che un’opera provoca un impatto retinico, una forma: essa è sempre fatta da due approcci concettuali, uno legato alle tematiche e uno al fare, il perché quell’oggetto ha quella determinata forma. La formalizzazione dell’oggetto che non è mai casuale. E quella forma, anche svincolata dal significato, racconta qualcosa. Credo nell’astrazione delle cose. Parto da alcuni dati certi per arrivare alla fine ad altri dati certi, legati alla forma, che sono il come è fatto il lavoro. E in questo passaggio c’è un importante livello di astrazione, il mio modo di vedere le cose, che crea distorsione. Ci sono autori come Miroslaw Balka, Cildo Meireles a cui mi sento vicino. Se penso ad un italiano allora mi viene in mente Luciano Fabbro, del quale sento affinità per la metodologia e nel un suo approccio un po’ cervellotico, nel risultato formale con la sua ricercatezza che non è mai leziosa. Anche lui aveva un grande rapporto con gli artigiani con cui lavorava, che per me è fondamentale».

Trovo il tuo lavoro semplice nella comprensione anche quando affronta tematiche complesse e irrisolte, come per esempio il presunto suicidio dell’anarchico Pinelli e la dubbia caduta da una ringhiera alta 90 cm. Sarà forse l’uso dell’alfabeto numerico, ovvero il più universale e comprensibile al mondo?
«Mia figlia a quattro anni chiama le lettere numeri. E contare è una delle prime cose che impariamo a fare. Ma una persona di cultura ebraica però percepirebbe il lavoro diversamente, perché per loro i numeri hanno un’altra valenza. A me i numeri aiutano a comprendere il fatto e le sue dimensioni. È un linguaggio e il mio modo di guardare le cose. Secondo me il punto è utilizzare un linguaggio che ti viene il più naturale possibile e che poi ti contraddistingue».
Negli ultimi tuoi lavori la distanza storica dal fatto analizzato si è accorciata? Mi viene in mente il lavoro del 2010 “il peso del mio corpo da un blocco di pietra del peso di una barca”, tratta un argomento molto contemporaneo alla nostra vita, quello dell’immigrazione via mare. Un lavoro realizzato per Lampedusa. Contemporaneo al fatto, ma anche anticipatore possiamo dire del boom almeno mediatico che sarebbe accaduto?
«Si ed anche no, le cose iniziano lentamente, i grandi eventi accadono poco alla volta, non succedono così all’improvviso, anche l’11 settembre sembra un evento improvviso, ma non lo è. C’è una maturazione che porta poi all’evento».
Per cosa secondo te sarà ricordata la nostra epoca?
«Questa è una domanda difficile! Io credo molto nella distanza storica ed è complicato ora dare una risposta. Ci sono cose che per noi ora sembrano fondamentali, ma che tra trent’anni ci sembreranno del tutto irrilevanti. Ciò che certamente cambia nel tempo è la “morale”, e di conseguenza cambia anche il modo di guardare il mondo. Una cosa che mi viene in mente è che anni fa non avrei mai pensato che ci sarebbero stati dei flussi migratori così significativi come quelli di oggi. I flussi migratori non possono essere controllati, ma solo studiati. Anzi, abbiamo bisogno di questi flussi migratori. L’Europa ne ha bisogno. Forse ciò che ci spaventa e quello che avverrà tra cento anni. Probabilmente la nostra cultura e visione occidentale delle cose, è una visione destinata a soccombere, a fallire e ad estinguersi».
Michela Casavola

Nasce a Taranto nel 1976, è critico d’arte e curatore indipendente. Laureata in Conservazione dei Beni Culturali presso l’Università del Salento, si è successivamente specializzata in comunicazione visiva e arte contemporanea a Roma e a Berlino dove ora vive. Ha collaborato con diverse testate del settore. Ha curato mostre in spazi privati e pubblici e pubblicato cataloghi di artisti. Collabora da diversi anni con il Centro d’Arte Contemporanea Torrione Passari.

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