14 febbraio 2016

L’intervista/Francesco Jodice

 
VIVERE DA RECLUSO A TOKYO
Il fotografo italiano ha documentato gli Hikikomori in un film presentato a Modena. Ne abbiamo parlato con lui

di

Hikikomori, Otaku, harajuku girls e suicide pact sono alcune espressioni del disagio e dell’assenza di comunicazione che colpisce circa un milione di giovani giapponesi. Fenomeni di grave disfunzione sociale, presenti soprattutto nella popolazione maschile, che sceglie un isolamento passivo, una reclusione volontaria, a volte addirittura il suicidio. Nel 2004 Francesco Jodice ha compiuto un viaggio in Giappone, cominciando ad esplorare questo fenomeno che ha preso corpo in Hikikomori, un film e una serie di scatti presentati il 13 febbraio (fino al 21 febbraio) alla Galleria Civica di Modena. Quasi una sorta di appunti per un più vasto progetto socio-antropologico, tuttora in lavorazione, dal titolo “What we want”. 
Fino al 19 febbraio, insieme al film e alla mostra  è visibile anche lo spettacolo Hikikomori. Metamorfosi di una generazione, in silenzio di Holger Schober, per la regia di Vincenzo Picone, ospitato nella sala grande di Palazzo Santa Margherita in collaborazione con ERT Emilia Romagna Teatro Fondazione. 
Abbiamo parliamo con Francesco Jodice per capire meglio questo fenomeno giapponese e rintracciare eventuali analogie nello stile di vita occidentale. 
Francesco Jodice, Tokyo Shibuya, 1999, Galleria Civica di Modena, Raccolta della Fotografia © Francesco Jodice

Come è entrato in contatto con il fenomeno e quale storia o immagine l’ha spinta più di altre ad occuparsene?
«L’incontro con Hikikomori è avvenuto per caso nei primi anni Duemila durante un breve periodo di insegnamento a Tokyo. Ed è stato il mio personale interesse nei confronti della cultura video ludica a farmelo conoscere, in quanto il videogioco viene spesso usato dagli Hikikomori come tramite per bypassare la realtà con la quale rifiutano di interfacciarsi. Ciò che mi ha spinto ad occuparmene è stato Il fatto che nel 2003 in Occidente non si sapesse nulla degli Hikikomori, nonostante i numeri impressionanti (800mila casi di “reclusi” accertati solo a Tokyo) e il termine stesso non comparisse sui vari siti internazionali. Mi ha colpito soprattutto il trovarmi di fronte non a una semplice forma di disagio psicosociale, ma a una modalità inconsapevole e telepatica di ribellione giovanile al sistema senza precedenti».
Ritiene l’Hikikomori un retaggio patologico della passività tipicamente orientale o l’effetto inconsapevole dell’occidentalizzazione forzata che ha partorito una generazione schizofrenica, cresciuta nel mito della cultura occidentale filtrata via web, ma inserita in una società ancora arcaica e gerarchizzata in cui non si riconosce?
«Escludo sia l’effetto di un processo di occidentalizzazione che ritengo, peraltro, più un misunderstanding o una mitografia dell’Occidente portato a pensare che il Giappone ne subisca una fascinazione tale da assorbirne i modelli culturali e trasformare di conseguenza il proprio assetto sociale. Il Giappone è si un Paese protagonista di una metamorfosi incessante, ma regolata esclusivamente da processi economici, politici, culturali intestini. È stato, dunque, un cambiamento economico endemico come la bubble economy dei primi anni ‘90 a innescare la profonda trasformazione sociale che potrebbe spiegare il fenomeno dell’Hikikomori. Le prime forme di emancipazione lavorativa femminile in una società ancora fortemente maschilista, unite a una diffusione massiccia del workaholism (dipendenza dal lavoro), hanno portato a generazioni di bambini e ragazzi soli. Il videogioco era il loro unico amico-baby sitter e hanno iniziato a sviluppare problemi di comunicazione e tendenze all’autoreclusione domestica, rifugiandosi in realtà virtuali piuttosto che interagire con una società dalle regole inaccettabili che loro attaccano semplicemente non uscendo più dalla propria stanza».
Francesco Jodice, Yasuaki, Hikikomori, 2004 © Francesco Jodice

Nel contesto occidentale ci sono fenomeni simili?
«Generalmente si ha la tendenza, commettendo una grave leggerezza, ad associare l’Hikikomori a casi occidentali di disagio mentale come schizofrenia o disturbi bipolari, mentre si tratta di un fenomeno legato a particolari condizioni economiche, politiche e sociali proprie del solo Giappone. Dunque, in Occidente non è rintracciabile nulla di simile».
Parliamo di un’altra passività indotta, più vicina a noi, ma altrettanto drammatica: la disoccupazione giovanile post-crisi e le annesse forme di precariato in costante crescita che spesso portano a casi di autoemarginazione, rinuncia esistenziale e rifugio nei mondi virtuali confezionati dal web, fino a sfociare in depressione grave o suicidio. Siamo distanti dall’Hikikomori o forse non troppo?
«La crisi economica del 2008 nata con il fallimento della Lehman Brothers ha causato una perdita generalizzata di prospettiva e una crescita vertiginosa dei tassi disoccupazione giovanile con i conseguenti effetti di alienazione e difficoltà nel produrre sistemi relazionali propositivi. Ma si tratta di una forma di passività indotta imparagonabile e molto meno impressionante per dimensione numerica rispetto al caso giapponese. Se si pensa che nel 2004 nella sola Tokyo, tra Hikikomori, Otaku, harajuku girls e suicide pact, il fenomeno coinvolgeva circa 800mila ragazzi e ragazze tra i 13 e i 30 anni, si ha una fotografia storica impressionante di un atto di reazione inedito e quasi fantascientifico a una determinata società. Di solito in Occidente siamo abituati a pensare il conflitto tra nuove generazioni e sistema precostituito come uno scontro fisico, violento come è avvenuto nella cultura della beat generation californiana, in quella punk londinese anni ’50-’60 la prima e ‘70 la seconda o per i Seattle boys degli anni ‘90 e 2000. Qui, invece, per la prima volta l’accusa di un sistema avviene sottraendosi piuttosto che aggiungendo qualcosa, inaugurando un modello di reazione passivo e non violento che mi piacerebbe divenisse un esempio esportabile in contesti occidentali». 
Francesco Jodice, What We Want, Tokyo, R25, 2004 © Francesco Jodice

Di fronte a una società inadeguata alle aspettative il chiamarsi fuori è l’unica forma di libertà possibile o solo l’ultimo esito indotto da determinate congiunture economiche e socioculturali? Insomma, è ancora una volta il fuori che detta le regole del comportamento individuale?
«Certo, sono le condizioni economiche, politiche e socioculturali a determinare le modalità di reazione alla società. Gli Hikikomori rappresentano, per le conseguenze sull’individuo, la forma di reazione peggiore nei confronti di un paradigma politico-sociale inadeguato e imposto, ma anche l’unico possibile in una società gerontocratica e antimeritocratica come quella giapponese. Un fenomeno giovanile occidentale di risposta, paragonabile ma opposto, è quello delle Start up, del fundraising e dei vari kickstarters della California degli anni ’10 del Duemila che, di fronte a una situazione economia compromessa, priva di riferimenti, di prospettive e di una sicurezza previdenziale, a un sistema d’istruzione arretrato e a una politica indifferente è stata in grado di inventarsi un palinsesto progettuale di indipendenza da questi paradigmi preesistenti in cui non si riconosceva e che contestava. Anche in questo caso, è però il contesto culturale, altamente meritocratico e improntato alla valorizzazione delle capacità individuali e di una certa attitudine al do it yourself, a produrre questa reazione sana al sistema. Purtroppo anche in Italia la stagnazione economica e una società che è un’ambigua e melliflua via di mezzo tra quella giapponese e quella californiana (incapace di rispettare la meritocrazia e fortemente gerontocratica, ma meno vincolata di quella giapponese) si rispecchiano in una generazione di giovani tra i 20 e i 30 anni totalmente incapace di creare proposte culturali, soluzioni innovative in grado di trasformare o mettere in discussione quell’immobilismo di cui sono vittime».

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