07 settembre 2018

L’INTERVISTA/ Gabriel Pérez-Barreiro

 
“AFFINITÀ ELETTIVE” E NON SOLO TEORIE
Aperta la 33esima Biennale di San Paolo, la seconda più “antica” del mondo. A tu per tu con il curatore

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La Biennale di San Paolo, intitolata “Affective Affinities”, ha inaugurato lo scorso 4 settembre sottolineando, a partire dal suo stesso modus operandi, ciò che sta prendendo forma come opinione consolidata tra le voci autorevoli del mondo dell’arte: un cementarsi del discorso teorico analitico che, parafrasando Theodor Adorno, “Respinge il principio dell’unità, dell’onnipotenza e della superiorità del concetto” a discapito della esperienza estetica. 
Gabriel Pérez-Barreiro (Spagna, 1970) curatore della presente edizione della seconda biennale più antica al mondo e della Colección Patricia Phelps de Cisneros, a New York, propone di ripensare “Il ruolo sociale e trasformativo dell’arte nella sua capacità di espandere la sensibilità”. Il desiderio? Riabilitare la molteplicità di fronte alla unicità, il mythos di fronte al logos, la differenza di fronte al pensiero identitario e, infine, la forza espressiva dell’opera d’arte di fronte allo schematismo universalizzante. 
Una proposta che sembra essere accolta con entusiasmo e che – seguendo la linea di Christine Macel durante l’ultima manifestazione veneziana – vuole privilegiare la voce e le prospettive degli artisti. Con questa convinzione, Pérez-Barreiro ha invitato sette artisti a curare una serie di mostre collettive, tra cui quelle di Sofia Borges (Brasile, 1984), Wura-Natasha Ogunji (USA, 1970) e Antonio Ballester Moreno (Spagna, 1977). Altri dodici progetti individuali, insieme all’omaggio di figure scomparse troppo presto, come Feliciano Centurión (Paraguay, 1962 – Buenos Aires, 1996) e Lucia Nogueira (Brasile, 1950-1998), integrano il programma che si propone di restituire all’arte e allo spettatore uno spazio in cui abbia luogo quell’eccesso inspiegabile e asistematico, quel “di più” non verbalizzabile proprio dell’opera d’arte.
In questa intervista Pérez-Barreiro racconta come è stata concepita la manifestazione di San Paolo e ci invita a riflettere sul ruolo del curatore.
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Wuru-Natasha Ogunji, Generators (2014)
La edizione in corso della Biennale di San Paolo dal titolo “Affective Affinities” si ispira tanto alla tesi del critico brasiliano Mario Pedrosa Sulla natura affettiva della forma nell’opera d’arte (1949) come al romanzo di Goethe Le affinità elettive (1809). Quale sono le analogie che ha trovato in entrambe le opere e come si coniugano nella sua idea curatoriale?
«In portoghese, l’idioma originale in cui ho formulato il progetto, la parola “affetto” –all’interno del campo della psicologia visiva – significa influenzare o cambiare. Il concetto di Goethe delle “Affinità Elettive” traccia un parallelo tra come sono collegate le persone e il modo in cui le sostanze chimiche interagiscono. Da un’altra parte, il lavoro di Pedrosa si incentra su come siamo influenzati dalle nostre conversazioni “interne” con l’arte. Seguendo questo ragionamento, mi sono interessato al modo in cui una esposizione viene percepita a seconda dell’osservatore, che a sua volta crea le proprie affinità affettive con le opere e con le idee presentate. Siamo abituati all’idea che una biennale (o qualsiasi altro progetto curatoriale) debba avere un “messaggio” da comunicare staccato rispetto all’esperienza reale della mostra. Vorrei recuperare, invece, questo aspetto della costruzione dell’esperienza individuale come un modo per edificare uno spazio comune che parta dalla diversità e non dall’uniformità. Questo concetto di “affinità affettiva” richiede quindi di una maggiore apertura, di una visione più larga dal modello “tematico” che tende a dominare il discorso curatoriale contemporaneo».
E in che modo il modello proposto in “Affective Affinities” mette in discussione questa tendenza?
«Credo che il modello curatoriale centralizzato e tematico – innovativo vent’anni fa – tenda a produrre eventi che siano compresi, prima di tutto, per la loro capacità discorsiva, ma non dall’esperienza dei visitatori e dei partecipanti (compresi gli artisti). Con la figura del curatore sempre più visibile e centrale negli ultimi decenni la pratica curatoriale è diventata più professionale, discorsiva e teorica. Oggi è possibile ottenere una laurea accademica in pratica curatoriale senza nemmeno fare uno studio visit. Storicamente gli artisti hanno curato le loro mostre, e sin dal XIX secolo questa è stata una pratica centrale nello sviluppo dell’arte moderna e contemporanea. Ci sono molti progetti interessanti degli ultimi anni dove gli artisti hanno lavorato come curatori. In questo senso sono molto importanti i progetti “The Next Documenta Should be Curated by an Artist” (Jens Hoffmann and e-flux, 2004) oppure la serie Artists Choice del MoMA, tra tanti altri. Come curatore, trovo che queste proposte siano di forte ispirazione, e sono convinto che la visione dell’artista sia esso stesso un sistema curatoriale, così come il “tema”, la “geografia”, la “cronologia” o altre visioni alle quali siamo abituati. Ho pensato che sarebbe stato interessante invertire il rapporto curatore-artista, mettendo gli artisti al centro del progetto con una reale autonomia all’interno della struttura curatoriale. In quanto tale, la 33esima Biennale è composta da sette diverse mostre curate da artisti accanto a dodici singoli progetti che io stesso ho selezionato».
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Sofia Borges – Painting, Brain, and Face (2017)
Quale è stato il criterio di selezione per i sette artisti-curatori?
«Da una parte ho iniziato cercando da cinque a dieci artisti ponendo come condizione il fatto che dovessero essere brasiliani, latinoamericani e di altre nazionalità in eguali proporzioni, in linea con la mia interpretazione della storia della Biennale. Dall’altra parte, invece, non tutti gli artisti vogliono svolgere il ruolo di curatore. Questo mi ha portato a invitare sette artisti – con approcci molto diversi riguardo all’arte e alla curatela – a organizzare queste mostre. La sola condizione era includere il proprio lavoro, lasciando assoluta libertà nel coinvolgere le opere e gli autori con cui si è scelto di instaurare il dialogo, esplorando un’alternativa al modello curatoriale centralizzato e tematico che è indiscutibilmente applicato nelle biennali odierne».
Quale dovrebbe essere il ruolo di una biennale d’arte? 
«Nel campo dell’arte contemporanea si discute molto sull’esistenza di una crisi causata dalla proliferazione di biennali (secondo le stime più recenti sono circa 320), e credo che ci sia un certo esaurimento del modello attuale. Sulla base del numero crescente di persone che visitano i musei d’arte contemporanea nelle principali città del mondo è infatti interessante chiedersi qual è il ruolo delle biennali rispetto a un’infrastruttura culturale più esauriente. Spero che questo tipo di manifestazioni possano portare un certo grado di sperimentazione e di rischio, più difficile da trovare tra le esigenze di un museo tradizionale. Un’altra caratteristica interessante, che forse è la più importante per me, è la missione educativa, la generazione di una serie di opportunità per discutere di questioni relative all’arte di oggi».
Ana Laura Espósito

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