Una camera delle intenzioni. Nel presentare la mostra The inner outside (bivouacs) da poco aperta a Casso hai usato queste parole. Quali sono gli obiettivi e come si sviluppa il progetto?
«Il progetto può essere guardato da diverse prospettive, il format è articolato, anche se coerente nelle sue parti. Si tratta di un motore, culturale e artistico, che si oppone ai concetti atrofici di esclusività e chiusura. Ogni cosa può essere chiusa ed esclusiva, perfino negli ambiti liberi, com’è (talvolta) l’arte, che invece dovrebbero, semplicemente, aprire al senso. Opporsi alle visioni ed alle prassi stereotipe, è un metodo per alimentare una ricerca del nuovo, ovvero per esplorare, e aprire. Per questo motivo, riapriamo siti abbandonati, svuotati, li sblocchiamo, riconcependone un’identità, un uso. Per la stessa ragione, lavoriamo a costruire immagini nuove per ambiti culturalmente depotenziati, banalizzati, come la montagna, la cui rappresentazione estetica, e la cui identità contemporanea, sono quasi sempre deficitarie, declinate in modo passivo. Il lavoro con gli artisti, le mostre, le cosiddette attività, sono parti di questo processo, che è, ancora in termini generali, una riflessione attiva sui paesaggi, di ogni genere. Non solo intenzioni dunque, non uno sguardo contemplativo, ma una serie di azioni e prassi concrete, che, risignificando, a loro volta generano identità».
Il braccio architettonico che sovrasta la scuola contemporaneamente sfida e tende la mano al Vajont. Prendere le misure di tragedie simile deve essere un’impresa titanica e pochissimi riescono a rispettarle, penso a Boltanski per esempio. A Casso come avete trovato il punto dove installare il bivacco?
«L’area del Vajont sembra ferma, immobile nel passato. Invece è in bilico. Tra il passato, un presente amorfo, ed un futuro per molti inconcepibile. Il bilico, è appunto il Nuovo Spazio di Casso, una scuola chiusa dal disastro, nel 1963. Che è divenuta ora un motore di produzione culturale. La sua architettura è caratterizzata dalla forza. Uno spalto. Sta, e al tempo stesso si proietta, verso i grandi segni testimoni della tragedia. Questi segni non debbono essere fossili, crediamo noi. Non si tratta di rispettare le tragedie. Si tratta di dichiarare che esse non possono in alcun modo impedire all’uomo di essere, vivere, fare, pensare. Il bivacco è un rifugio minimo d’intenzione/azione, da cui si parte, per esplorare lo spazio, viverlo, agirlo. La tragedia non è uno spazio. Lo spazio è il senso: la tragedia è un’interruzione della storia, del senso. La tragedia non va superata: essa va agita, con intelligenza. La tragedia non è l’identità di un luogo, mai. Le identità dei luoghi sono gli uomini».
Confrontarsi con la memoria di un luogo spinge inevitabilmente ad aprire un dialogo con i sommersi ed i salvati. Il coinvolgimento di Augé sicuramente darà un contributo importantissimo in questa ricerca relativa alle rovine umane, che forme prenderà?
«Non si può parlare solo con i sopravvissuti, e non è giusto che essi soli parlino, né che siano lasciati soli, com’è stato qui. Questa terra non è proprietà dei superstiti e dei sopravvissuti. È dell’umanità. È di ogni uomo che sappia e voglia pensare. Non è necessario, né giusto, venire qui in pellegrinaggio silenzioso, a commemorare. Anzi, far solo e sempre questo, è sbagliato. Ecco perché ha senso invitare a Casso persone come Augé, Settis, Jodorowsky. Altri sguardi, attenti e vivi e capaci di idee e proiezioni, che si posano su questa terra, e la traguardano, nel senso. Come gli artisti».
La tua formazione di architetto sembra influenzare la selezione e la reinvenzione degli spazi in cui lavori, particolarmente a Casso e nel nuovo sito di Borca. Come sono scelti gli spazi?
«Gli spazi sono selezionati in base al loro potenziale. La qualità architettonica dei siti è uno degli elementi che consideriamo, parte del potenziale. Le architetture industriali creano uno scarto estetico rispetto al paesaggio naturale in cui sono inserite. Questo scarto ci interessa. È una frizione che determinano. Non vi è alcuna automatica sintonia organica tra questi siti e l’ambiente. I siti sono gli epicentri del progetto. DC è una rete. Il progetto è un processo, che apre, include e integra. Centinaia di soggetti, di ogni tipo, sostengono ogni fase del nostro lavoro. DC non è l’identikit di un ideatore. È una prassi d’attenzione, condivisa, che si instaura nel territorio, lo vive, ne vive, lo fa vivere. Noi pensiamo a pratiche e modelli di rigenerazione, che non potremmo però mai realizzare da soli. Che, dunque, non sono nostri».
Two calls. For Vajont. Un concorso davvero ambizioso per rileggere il Vajont. Non si corre il rischio di togliere, aggiungendo?
«No, non si corre mai questo rischio. Il concorso non serve a far due opere: serve ad aggiungere senso, facendosi carico responsabile di un’analisi critica, che verrà formalizzata plasticamente, perché siamo convinti che l’arte contemporanea possa essere un metodo innovativo e franco e funzionale per guardare alle cose, e per muoverle. Artistico vuol dire umanistico. Si aggiunge quel che è mancato per mezzo secolo: l’esserci dell’uomo, in proiezione attiva. La vita».