02 febbraio 2013

L’intervista/Gianni Berengo Gardin Con la passione di un dilettante

 
Ha un archivio di oltre un milione e 500mila foto, eppure Gianni Berengo Gardin si definisce «un fotografo come tanti altri». E dice anche che ritrarre i soggetti più complessi rende il lavoro più semplice. Falsa modestia? Niente affatto, perché G.B.G. sa essere anche molto caustico. Tuona per esempio contro il digitale, il divismo nella fotografia e ce ne ha anche per Venezia. Che ora però lo celebra con una grande mostra

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A Venezia, nella splendida sede dei Tre Oci otto sezioni tematiche propongono un selettivo spaccato dell’opera di Gianni Berengo Gardin, immagini intense scattate in un arco temporale che parte dagli anni Cinquanta. Ne abbiamo parlato con l’autore.

Mi scusi l’imbarazzo, non le nascondo che non è semplice accostarsi ad una persona che è una eminente parte costitutiva della storia della fotografia italiana e internazionale degli ultimi cinquant’anni.

«Direi che sono un fotografo come tutti gli altri».

Credo faccia parte del suo stile una risposta del genere, si parlerebbe a tale proposito di discrezione.

«Anche, ma non si tratta solo di discrezione. In un certo senso quello del fotografo è sopravvalutato come lavoro. Soprattutto ora che tutti vogliono diventare divi, o li fanno diventare divi. Credo solo di essere rimasto quello che ero, un fotografo».

Sarà una coincidenza, ma qualche giorno fa ho sentito dire a Rem Kohlhaas, in occasione della conferenza stampa per la prossima Biennale di Architettura che le archistar sono una invenzione del ‘giornalismo pigro’. Nel caso specifico si potrebbe parlare di ‘pigrizia’ se si risolvesse un lavoro come il suo con la chiave dell’ ‘artisticità’.

«Forse sì, forse è così».

Per essere fotografo bisogna avere fiducia nella realtà.

«Bisogna avere tanta fiducia nella realtà. E cercarla anche, la realtà. Selezionarla, perché non tutta la realtà è fotografabile».

Cosa dirime quel che è fotografabile da quello che non lo è?

«Ormai si fotografa tutto, tutto e di più. E quindi una certa selezione di cose interessanti, che raccontino qualcosa, bisogna farla. Qualsiasi cosa può essere un fatto, un avvenimento, però poi bisogna raccontarla e descriverla fotograficamente».

Guardando le sue immagini ho avuto l’impressione, ricorrente, vi sia un rapporto molto intenso fra il soggetto ripreso e il contesto. E nel suo caso si tratta del soggetto umano, l’argomento principe della sua ricerca.

«Una cosa che mi ha insegnato un amico, che è anche un maestro, Josef Koudelka, è che nelle fotografie deve sempre succedere qualcosa. O grande o piccolo, ma deve esserci un avvenimento. Ormai si usa fotografare la gente, impalata, rigida (si alza in piedi e mima tale atteggiamento). È fotografia anche questa, ma non racconta niente, quasi niente, di una persona, di una situazione. E quindi vi deve esser del movimento, qualcosa che accade».

Forse è proprio questo il punto a cui si accennava fra fotografabile e non fotografabile nelle sue immagini. Intendo una relazione non prevedibile fra soggetto e contesto.

«Certo. Perché tu non ti aspetti mai come si comporta colui o colei che hai di fronte. E devi cogliere il momento più significativo, il famoso momento decisivo di Cartier-Bresson».

Il momento della scelta, che poi prosegue. Lei in occasione di questa mostra ha fatto una severissima selezione del materiale.

«Evidentemente sì! Ho in archivio un milione e cinquecentomila fotografie, ne abbiamo selezionate centotrenta. Poi è un po’ come se si trattasse di figli, si scelgono quasi sempre le stesse, perché ci si affeziona alle fotografie come ci si affeziona ai figli. E così si tende a mostrare agli altri quasi sempre le medesime, perché hanno un valore intrinseco».

Un valore esemplare si potrebbe dire. Lei è uno dei grandi ritrattisti di questo Paese. Certe sue fotografie degli Italiani resteranno classiche come delle pagine di letteratura. Lei ritrarrebbe ancora gli Italiani del 2013? Hanno ancora delle caratteristiche distinguenti?

«Non vedo perché non dovrei riprenderli! Hanno altri tipi di caratteristiche rispetto ad un tempo, questo sì. Però è importante continuare a fotografare, fra vent’anni saranno ancora diversi. Da questo deriva l’importanza degli archivi, la loro indispensabilità, per il continuare a raccontare, la possibilità stessa di mantenere l’immagine di un soggetto che muta. Ora fotografano tutti. Il digitale concede un aumento esponenziale del volume di immagini fotografabili. Ma, come pare, se fra qualche anno muteranno i supporti di lettura, come è già avvenuto in passato, resterà poca cosa degli archivi digitalizzati. Il digitale rischia una deperibilità maggiore delle pellicole stesse. Questa è una delle motivazioni per cui io continuo ad utilizzare la pellicola, rispetto al digitale. Il digitale è poi così freddo, metallico, così piatto. Le donne sembrano fatte di cera, non hanno più una ruga! In questo senso non mi sento un artista, piuttosto un fotografo classico, della scuola di Cartier-Bresson, di Salgado, di Kudelka. Fra gli italiani Francesco Cito, Ivo Saglietti».

Potremmo includere anche le esperienze veneziane del circolo “La Gondola”.

«Con “La Gondola” ho avuto un inizio fantastico, indispensabile direi. Io sono ancora un professionista che fotografa con gli occhi di un fotoamatore. E questo è stato un grande vantaggio nella mia professione, arrivare dai dilettanti».

Credo vi sia un sottile discrimine nella resa finale.

«Ma la passione è quella del dilettante».

Mi riferivo prima all’atteggiamento suo rispetto a quanto si può dire e mostrare di una realtà indicibile, penso all’esperienza con Franco Basaglia, ho rivisto ora alcune fotografie di “Morire di classe”.

«Consideri che lì non è questione di capacità del fotografo, è il soggetto che racconta tutto. Qualsiasi fotografo avrebbe fatto così quelle foto, se non meglio. Invece è difficile con certi soggetti che sono piatti, che non dicono niente, trovare il modo di dar loro un certo vigore. Ma quelle foto lì hanno un vigore proprio, negativo o positivo che sia. È paradossalmente facile fotografare certi soggetti».

Forse il pericolo a cui ci si espone è quello di una tonalità espressionistica; da qualche parte lei ha scritto qualcosa a tale proposito. Fermarsi un attimo prima, è la discrezione a cui si accennava.

«Per quelle foto non dimentichi che avevo l’appoggio di Franco Basaglia che mi diceva “certo non è una cosa piacevole fotografare i pazienti, né per loro essere fotografati. Però è una cosa necessaria, perché se non facciamo vedere in quale situazione sono ridotti non otteniamo niente”».

Un valore testimoniale della fotografia.

«È stata la stessa cosa con la serie di fotografie dedicate agli zingari, o con il Paese di Zavattini. È sempre imbarazzante per un fotografo fotografare certe situazioni, anche non drammatiche. Dipende da come reagiscono le persone, tante storcono il naso. Ma tante sono contente di essere fotografate».

Il fotografo, del soggetto ripreso, rivela ciò che il soggetto non sa. In quanto osservatori si nota qualcosa che il soggetto stesso non può osservare.

«Succede anche nella vita quotidiana, ad altri come a me. Non facendomi la barba, non mi guardo allo specchio. Vado una volta al mese dal barbiere e dico ‘taglia’. Scoprendo di me una immagine completamente diversa da quella che pensavo di avere. Come quando si guarda la fotografia sulla propria carta d’identità di dieci anni prima!».

Come a dire che la fotografia è una macchina del tempo. Lei ha tentato più volte di rendere visibile questa dimensione del tempo. Penso a Luzzara, di recente con “Gente di Milano”. E a Venezia.

«Venezia è cambiata moltissimo, dalle mie foto degli anni ’50 ad oggi. È una città irriconoscibile, è un suk. Non è più una città pulita, e non intendo la pulizia delle strade. Intendo pulita, onesta. È un brik e brak pazzesco. Ora non esiste più un certa vitalità delle corti, dei campielli. La ressa d’estate, le bancarelle, i negozi di cianfrusaglie. Purtroppo non si tratta di negozi che danno un tono alla città, ma se non provvedono le autorità locali, se non lo fanno i veneziani, non si può certo dar la colpa a quelli di fuori. È anche vero che è un fenomeno che sta accadendo anche in altre città segnate dal turismo, forse però in modo meno visibile».

Un’ultima domanda: la fotografia, e soprattutto quella classica in bianco e nero, mi sembra un linguaggio essenzialmente del Novecento. Una fotografia inclusiva, che presta attenzione a soggetti socialmente marginali. Quasi una utopia, in grado di restituire visivamente  una sorta di uguaglianza per cui non vi è un soggetto che non sia degno di essere fotografato.

È una utopia nel senso che la fotografia pur raccontando qualcosa agli altri, non modifica niente, non è in grado di modificare niente delle opinioni, non incide nelle coscienze, o almeno molto poco. Resta un non-luogo che permette forse il piacere del riconoscersi».

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