Non è molto incline a concedere interviste, Gianni Piacentino. Questa volta ha accettato di raccontarsi e di ripercorrere un pezzo recente di storia dell’arte italiana. Ecco la sua testimonianza.
Come e quando sei passato da opere di matrice minimalista alle macchine? Quali sono le ragioni di questo cambiamento di rotta?
«Per via di un’insoddisfazione legata al clima di allora, nel Deposito d’Arte Presente a Torino nel 1968. Gli altri artisti spostavano sempre i miei lavori in fondo perché erano molto grandi e di forme “taglienti” e tagliavano appunto la vista delle altre opere. Anche perché all’inizio dell’Arte Povera le opere non erano di dimensioni grandi. Un giorno mi sono stufato: ho ritirato i miei lavori (dando dimostrazione del mio famoso “cattivo carattere”) ed ho iniziato a restaurare una motocicletta Indian 600cc. degli anni Trenta aiutando un vecchio meccanico specialista di vecchie moto americane. Il mio lavoro precedente nasceva se pure in modo abbastanza personale (si capì un po’ dopo) nel linguaggio della storia dell’arte, ma in quel momento decisi di mettere nel lavoro tutto quello che mi piaceva, come le motociclette, le auto da corsa e gli aeroplani degli anni ’20-‘30 . Mi appassionai alla tecnica e ai suoi complessi processi anche manuali. Questa passione si è rinforzata ed educata quando ho cominciato a correre in moto come passeggero nella classe Sidecar 750, dal 1971».
Come hai realizzato questo desiderio?
«Ho cominciato a costruire modellini di macchine inventate, smontando e montando pezzi con logica estetica (per me) e non realistica. È successo nel 1968 e l’anno seguente ci fu la mia prima mostra con Veicoli e Ali alla galleria Toselli di Milano».
A differenza delle opere precedenti, queste ultime sono dense di riferimenti artistici, come il Futurismo. Non sono più strutture chiuse, ma aperte.
«Il Futurismo non mi è mai piaciuto, lo dico spesso: troppa teoria letteraria e opere spesso non molto belle. Le mie contengono riferimenti alle mie passioni, ai giochi, alla mia vita personale».
Com’erano i rapporti con gli artisti dell’Arte Povera?
«Inizialmente ottimi, eravamo amicissimi. Passavamo intere serate insieme nella galleria di Gian Enzo Sperone, a discutere. Ero legato in particolare a Giulio Paolini e a Michelangelo Pistoletto, che mi aiutò a montare la mia prima mostra: ero molto in ritardo con l’impegno con Sperone perché avevo perso mio padre da due mesi».
Conoscevi anche Paolo Icaro?
«Lo conoscevo poco, non si vedeva molto. Allora c’era un’atmosfera giusta, e molti artisti facevano cose interessanti. Poi, una volta finita quell’aria un po’, molti si sono persi, è una cosa normale».
Puoi descrivere meglio quell’atmosfera? In cosa consisteva esattamente?
«Ci sentivamo isolatissimi, alle nostre mostre arrivavano si è no dieci persone. Credevamo di fare qualcosa di importante, di necessario. Come una setta, o una società carbonara. Ci facevamo forza insieme, anche se facevamo cose diverse. Quando siamo arrivati ad avere qualche riconoscimento, come sempre succede in Italia, ognuno si è messo a coltivare il proprio orticello».
C’era anche Germano Celant?
«All’inizio c’era Tommaso Trini e suo fratello, Trini Castelli, che poi ha lavorato come creativo nell’industria, mentre Germano è arrivato dopo, ma ha conquistato presto il suo spazio con genialità».
Il polo centrale era il Deposito d’Arte Presente, giusto?
«In qualche modo sì. Lo dirigevano Sperone e Marcello Levi, un collezionista privato torinese molto importante per tutti noi allora».
Che rapporti avevano con la galleria Notizie di Luciano Pistoi?
«Erano distanti, quasi concorrenti. Pistoi amava Paolini, mentre Sperone lo riteneva fragile. Lui aveva cominciato portando a Torino gli artisti pop di Ileana Sonnabend e Leo Castelli, che erano stati scoperti da Pistoletto in un suo viaggio a Parigi visitando la galleria Sonnabend».
Sperone che ruolo aveva?
«Era l’amico e il padrone di casa. Portava tutti gli americani a Torino, mi ricordo che fece vedere il mio lavoro a Walter de Maria, che lo apprezzò. Lui faceva le svastiche in acciaio con le biglie dentro allora».
C’era anche Luciano Fabro?
«Lui stava a Milano, il centro allora era Torino».
Quanto è presente Torino nel tuo lavoro?
«Abbastanza o molto, grazie al “genius loci” della città. L’industria meccanica ovviamente, l’idea delle carrozzerie, ma anche una certa architettura, severa e rigorosa. Era un clima che si respirava, quasi inconsapevolmente come succede in qualsiasi città in cui cresci».
Quali erano i luoghi dove vi incontravate?
«La galleria Sperone, in piazza Cesare Battisti, era il principale, poi c’erano le trattorie (da Betti e “gli imbianchini”), e le case, come quella dei Pellion di Persano, la famiglia della prima segretaria di Sperone».
Parlavate molto?
«Sì, e di tutto. Ma l’arte, in un modo o nell’altro, c’entrava sempre. Si parlava molto degli artisti: Boetti ad esempio all’inizio non veniva apprezzato anche se eravamo amici, e infatti andò dalla Stein mentre con Sperone non fece nulla».
Christian Stein che ruolo aveva?
«Arrivò dopo, e scoprì l’importanza dell’Arte Povera più tardi, quando acquistò un blocco di lavori da un collezionista. All’inizio lei faceva anche altre cose interessanti. Fece la prima personale di Alighiero».
Il tuo rapporto con il design?
«Sperone era molto attento al design (come alla grafica), ma come artisti nessuno di noi sentiva particolari relazioni. Per me l’unica analogia era nella ricerca delle cose “ben fatte”».
E Roma?
«Roma era un’altra storia, non ci si veniva quasi mai. Facemmo una collettiva da Mara Coccia. Eravamo un gruppo di torinesi, dormimmo tutti a casa sua, ma fu l’unico episodio».
E Genova, con La Bertesca?
«Era una galleria interessante, che faceva un’ottima attività. Feci una mostra e riuscii a fargli comprare dei lavori e ad essere pagato, cosa che non accadeva quasi mai. Il programma lo faceva Celant e un socio di Masnata, che era in gamba. Mi pare che si chiamasse Trentalance».
Direi che Torino era l’arte, e Milano il design a quell’epoca. È corretto?
«Non proprio. A Milano c’erano anche gallerie interessanti come quella del padre di Grossetti (Salone Annunciata), dove feci una mostra per le affinità del mio lavoro col suo gusto astratto geometrico (pre-minimal). Loro lavoravano con un artista che mi piaceva molto, Livio Marzot: uno molto bravo che poi è sparito. Certo Sperone a Milano nel ’67 fece una mostra di ceramiche di Sotsass e la mia personale nella stessa galleria ebbe un poster disegnato dallo studio Sotsass».
Viaggiavi molto?
«Torino-Milano era una costante. Ricordo un viaggio in macchina fino a Lugano con Sperone, che presentava una mostra di Arte Povera».
Eravate molto amici?
È la prima Biennale che vidi a Venezia, nel 1964, ero con Sperone e la Sonnabend. Con lui siamo andati anche a casa di Panza, nel 1966. Aveva un atteggiamento tipico dei galleristi di allora che volevano entrare un po’ troppo nei processi creativi. Ci diceva di fargli vedere i progetti e io ero l’unico a rifiutare e rispondevo: “Vedrai le opere”. Non sopportavo questo atteggiamento, tipico del mio “cattivo carattere”».
I collezionisti?
«Pochi a Torino, amici di Sperone, più scena che sostanza: è rimasta una caratteristica molto torinese, a differenza di quello che normalmente si dice».
Frequentavi New York?
«Sono stato il primo ad esporre da O.K.Harris, (di Ivan Karp il primo venditore di Castelli che aprì una grande galleria a Soho), nel 1971. Avevo 26 anni, e ho saputo dopo che era stato il mio mercante tedesco a fargli vedere le immagini dei miei lavori. Ma New York era un altro mondo, si capiva subito».
Eri amico anche di Maurizio Mochetti?
«Venne a Torino a fare una mostra da Stein nel 1968. Ci conoscemmo e diventammo amici, perché anche a lui piacevano le motociclette, anche se di motori ne sapeva meno di quanto desse ad intendere».
Veniamo al tuo lavoro. Quanto è importante la manualità per te?
«È fondamentale. Quando lessi da ragazzo la frase di Leonardo Da Vinci che diceva “Guai all’uomo che sviluppa la mente e non la mano” mi ci sono subito riconosciuto».
Produci le opere tu o ti avvali di tecnici?
«Faccio quasi tutto io (soprattutto le finiture), e i tecnici che mi aiutano conoscono bene il mio lavoro. Certo i pezzi ottenuti con lavorazioni CAD CAM sono realizzati da officine specializzate. Del resto la meccanica è un po’il mio regno: so fare il carrozziere in maniera finissima, so lucidare i metalli e soprattutto rispetto le cose fatte bene. Sono perfezionista al massimo grado: siccome corro forte in moto, so che se ce qualcosa fuori posto, rischi di farti male. E uso la stessa attenzione nell’arte».
Parliamo della velocità. Cosa significa per te?
«Ci sono due velocità. La prima è quella mentale, che spessissimo manca, e la seconda è quella fisica, che per me è sempre legata all’oggetto protagonista dell’opera e alle motociclette della mia vita normale».
Come nasce il tuo logo?
«Quando avevo 12 anni mi dava fastidio vedere i quadri con la firma sotto. Mi sembrava che non c’entrasse niente. Ho pensato che bisognava trovare una soluzione diversa, che l’industria ha trovato con il marchio o la firma come decorazione. Il mio GP con le alette viene dalla Royal Air Force: Armani ha ripreso l’idea qualche anno dopo».
I materiali sono fondamentali nel tuo lavoro: Luciano Fabro li ascoltava, tu li utilizzi o li ascolti?
«Entrambe le cose. Se utilizzi bene un materiale devi conoscerlo bene. Io conosco soprattutto le vernici, perché da giovane ho lavorato in una fabbrica di vernici speciali con un chimico che mi spiegava le loro proprietà chimiche . Ma me la cavo bene anche con resina, legno e i metalli. Ne ho lavorati molti e ne conosco abbastanza bene le proprietà».
Che tipo di mansioni svolgevi alla fabbrica di vernici?
«Facevo ricerche sui colori nell’ufficio esperienze. Nel 1968 ho scoperto il madreperla (che in Italia è arrivato vent’anni dopo), con cui ho verniciato la mia Kawasaki 500 Mach III con i filetti viola: una bomba velocissima e bellissima. Ho cominciato ad usarlo anche sui miei lavori dal 1969».
Concludiamo con le due mostre romane. Che senso hanno avuto per te?
«Due sono forse troppe. Quella di Giuliani mi ha colpito per la quantità di opere possedute dai collezionisti romani. Quella da Guidi mi riguarda di più: sono idee su cui sto ancora lavorando».
I romani ti hanno voluto bene alla fine?
«Direi di si, seppure tardivamente. A Torino ho pochi collezionisti, mentre qui a Roma molti».
Gianni, cos’è l’arte per te?
«Un modo di vivere e lavorare (se sei fortunato) giocando e studiando. E alla luce degli ultimi decenni – a differenza di quello che appare – la vedo sempre più maschile e occidentale (tranne minime eccezioni)».