Categorie: Personaggi

L’intervista/Gianni Romano

di - 25 Maggio 2016
Per chi frequenta l’arte e la sua parte più “erudita”, laddove, insomma, non ci accontenta solo di vederla ma si cerca anche di problematizzarla, di pensarci sopra, Gianni Romano è un personaggio noto. Fondatore di una delle più interessanti case editrici legate, appunto, all’arte: Postmedia books, che negli anni ci ha fatto conoscere autori come Nicolas Bourriaud, Rosalind Krauss, Hans Ulrich Obrist e anche molti saggisti italiani i cui lavori facilmente sarebbero rimasti nel cassetto. Ora Gianni Romano ha preso una decisione che ha sorpreso molti, specie chi lo conosce da vicino. È un tipo piuttosto schivo, Romano, non propriamente il comunicatore che va forte negli odierni siparietti della politica. E invece Gianni Romano è candidato al Consiglio Comunale di Milano per la giunta Sala con aspirazione ad essere il prossimo assessore alla cultura della città. L’abbiamo incontrato per farci raccontare questa scelta. E altro
Una scelta impegnativa, quella di abbracciare la politica, specie di questi tempi. Da dove nasce, come matura?
«Ho fatto volontariato alle primarie per Beppe Sala occupandomi dei social media, mi ha contagiato il gruppo di cui facevo parte e l’entusiasmo generale di una politica nuova che d’altra parte a Milano è abbastanza tangibile dopo i cinque anni della giunta di Giuliano Pisapia».
A proposito del passato milanese più recente, cè un’eredità Expo da salvaguardare? Cosa c’è bisogno a Milano dopo l’Expo?
«La stessa cosa che serviva anche prima di Expo, un’attenzione rispetto a politiche culturali che devono far parte dell’amministrazione di una grande città e che per loro natura non rientrano tra le priorità dei grandi eventi. Io vorrei invece occuparmi di creare o coordinare strutture che aiutino tutte quelle aree sperimentali che negli ultimi anni sono molto vivaci a Milano».

E per la cultura, nello specifico, di che cosa c’è bisogno?
«Milano è invece una città contemporanea in tanti settori, ma in ambito culturale soffre lo stesso problema nazionale di indifferenza verso il contemporaneo. Senza sperimentazione la cultura è vetrina, solo archivio del passato. Senza sperimentazione non c’è cultura».
Vieni dall’area pd o altro?
«Radicale fino a 29 anni poi sempre PD, dalla “Svolta della Bolognina” per intenderci».
Nessun imbarazzo oggi con il Partito Democratico?
«Lo stesso Renzi ha ammesso che esiste una questione morale però a Milano mi sembra che siamo abbastanza concentrati sulla coalizione di sinistra. Inoltre a me un po’ secca che le “questioni morali” ce le poniamo sempre noi mentre altrove si ignorano questa e altre questioni del buon senso civico».
Gli assessori alla cultura provenienti dalla cultura stessa, quindi dei non politici di professione come sei anche tu, a destra e a sinistra, non hanno fatto una bella fine: Sgarbi e Boeri. Hai qualche (giustificato) timore a riguardo?
«Vuoi dire che questa è la statistica? Se nutrissi timori del genere avrei fatto meglio a restarmene  a casa e curare i miei interessi, magari a pubblicare libri che sono quasi pronti. In effetti è vero che Milano raramente ha avuto assessori alla cultura che sapessero gestire le politiche culturali e produrre un visione. Forse Stefano Boeri è stata una mosca bianca».

A Milano l’arte, in particolare, ma un po’ tutta la cultura (penso all’editoria), vede il primato dei privati. Pensi sia una realtà da correggere e in che modo?
«La collaborazione tra pubblico e privato fa parte delle politiche culturali a cui faccio riferimento, tanto è vero che già all’inizio dell’anno ho aperto un’associazione culturale che si chiama ArtCityLab (con Lino Apone e Rossana Ciocca). A Milano la gente ha voglia di fare, esistono centinaia di associazioni che sono attive con o senza il sostegno del Comune, esistono tanti piccoli imprenditori che una volta sarebbero diventati collezionisti, mentre oggi hanno una concezione della cultura più fattiva e partecipata. Milano è una città che assorbe, se riusciamo a coordinare queste forze avremo un onda lunga, anzi, un Mare Culturale Urbano».
Come ti spieghi che Milano, la città del mercato, del collezionismo, dell’editoria d’arte non abbia un museo d’arte contemporanea pubblico?
«Me lo spiego col fatto che finora le nostre istituzioni con grande fatica hanno conservato e valorizzato il patrimonio esistente lasciando ben poco al contemporaneo. è vero, è strano che in una città dove è circolata e circola tanta arte non ci sia un museo, però sai bene non è una questione di spazi, se non esiste una programmazione è inutile costruire gioielli architettonici tanto per esibirli sulle riviste ma destinati a non funzionare. Abbiamo bisogno di strutture come Base; pensa che Book Pride alla seconda edizione appena dopo l’apertura di Base ha registrato oltre 35mila visitatori».

Quali sono le risorse della città che vorresti alleate al tuo progetto?
«Le associazioni, sono tante e molto attive, le aziende senza ufficio marketing con l’amico geometra, alcuni assessorati che devono dialogare e semmai la creazione di uffici che sviluppino il coordinamento delle risorse in campo. Bisogna produrre e comunicare. Ma ti pare che a Milano con tutti i convegni e le fiere che si organizzano non ci sia un Convention Bureau che fornisca informazioni agli operatori? eppure anche in Italia abbiamo già i buoni esempi di Torino, Firenze, Rimini. A te sembra normale che l’ufficio stampa della seconda città d’Italia sia composto da una sola persona?».
Anche Milano, sebbene molto più avanti di Roma al momento, è una città di vecchi. Che proposte hai per i giovani?
«Non è l’immagine che ho io di Milano. Prova ad andare il venerdì alla Balera dell’Ortica e a dire pubblicamente che siamo in una città di vecchi».
Riesci a dirci in tre minuti di lettura perché si deve votare per te?
«Perché in genere faccio quello che dico, quindi se qualcuno è interessato a quello che dico, potrebbero dare una preferenza alla cultura».
Adriana Polveroni

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  • Un messaggio chiaro, incisivo e coerente con l'idea di una "cultura" del fare e non dell'esibizione fine a se stessa. Ad un lettore che legge per la prima volta, potrebbe suscitare la sensazione di trovarsi di fronte ad una dichiarazione di intenti di un uomo affidabile e concreto, che non affascina con fabulazioni, ma parla in modo semplice e trasforma la cultura in un fatto “normale”.
    Quello di cui ha bisogno la città, insieme a progetti culturali diffusi e ramificati, capaci di invadere lo spazio (pubblico e privato), non solo nei soliti luoghi noti e adibiti alla funzione di contenitori culturali, ma luoghi "altri" o “non luoghi”, assumendo non l’aurea di eventi ma diventando semplicemente “abitudine alla cultura”, ad un certo pensiero, ad una ragionevole attitudine a ristabilirne il ruolo come fondamentale ed indispensabile. La cultura deve diventare un atteggiamento, una inclinazione naturale, una di quelle buone abitudini dalle quali diventa difficile separarsi.

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