29 ottobre 2013

L’intervista/Gohar Dashti Fotografare la vita a Teheran

 
La fotografa iraniana, che ha già esposto a Boston, Taiwan e Tokyo, è a Milano per la sua prima personale in Italia. Dove presenta alle Officine dell’Immagine il suo ultimo lavoro, Iran, Untitled. Le questioni politiche e sociali del suo Paese sono il tema di questo progetto. Che però, a differenza di altri, fa leva sulla percezione emotiva. Dove quindi, come dice lei, “l’immagine parla per sé”

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Gohar Dashti a Milano (foto di Manuela De Leonardis)
Gohar Dashti (Ahwaz 1980, vive e lavora a Teheran) è arrivata a Milano con i suoi due assistenti. Tutti i suoi progetti, infatti, sono concepiti e realizzati in team. Serissima, ma aperta al sorriso, è circondata da alcune delle sue più note fotografie – ironiche e spiazzanti – della serie Today’s Life and War (2008). Altre tappe significative del lavoro della fotografa iraniana sono l’inquietante Slow Decay (2010) e Volcano (2012), che mette in scena il pericolo latente attraverso il paradosso: un elemento ibrido – visibile, ma allo stesso tempo invisibile – si introduce nella quotidianità creando un cortocircuito con i momenti di apparente spensieratezza. Inside Out a cura di Silvia Cirelli, da Officine dell’Immagine (fino al 24 gennaio 2014) è la sua prima personale italiana, in cui presenta in anteprima assoluta anche il suo nuovo progetto Iran, Untitled in cui entra in gioco la componente simbolica. Come scrive la curatrice: «Si evidenzia una vera e propria estetica dell’allegoria, in cui il messaggio viene rivelato tramite indizi nascosti che possono essere compresi solo sfidando la barriera interpretativa».
 Gohar Dashti, Volcano #6 (2012) - Courtesy dell'artista e Officine dell'Immagine, Milano

Partiamo da Iran, Untitled, il tuo ultimo lavoro.
«Quello che è veramente importante in questa serie è l’aspetto formale. Come gli altri progetti, anche questo riguarda questioni politiche e sociali, ma in maniera diversa. Queste foto sono come degli haiku nell’esplorare le connessioni tra forma e tema». 
Perché proprio il riferimento all’haiku?
«Personalmente vi ricorro spesso, l’haiku è qualcosa che non necessariamente si deve comprendere, ma si può percepire emotivamente. È come dare corpo al sentimento, in questa maniera l’immagine può parlare da sé». 
Parlando degli anni della guerra Iran-Iraq che hai trascorso ad Ahwaz, nel sud dell’Iran, hai affermato che la tua memoria è buona e insieme cattiva. In che senso?
«Ahwaz, la città dove sono nata e cresciuta, è molto vicina al confine con l’Iraq ma, malgrado la guerra, mio padre decise di non andare via proprio perché era la nostra città. Quindi, sono cresciuta con la guerra. Da una parte sembrava che tutto procedesse normalmente, ero una bambina e andavo a scuola, c’erano compleanni, matrimoni e feste di ogni genere, ma la guerra era una presenza costante di sottofondo. Una presenza che non riuscivo a cogliere del tutto ma che, comunque, era lì. Ricordo che una volta stavo andando con la mia famiglia ad un matrimonio e proprio quel giorno Saddam Hussein annunciò che avrebbe attaccato Ahwaz sganciando quindici bombe sulla città. Andammo comunque al matrimonio dove si festeggiò e si ballò, ma gli adulti, soprattutto le donne anziane, erano incollate alle radio per cercare di capire quello che stava succedendo al di fuori. Era come vivere nel paradosso». 
Gohar Dashti, Untitled #2, 2008 - Courtesy dell'artista e Officine dell'Immagine, Milano
Nel 2005 hai seguito un master di fotografia a Teheran. Come nasce l’interesse per quest’arte? Ci sono stati autori che consideri dei maestri?
«Alle scuole superiori ho studiato graphic design e seguito dei corsi di fotografia. Ho deciso di continuare con la fotografia, superando un esame molto difficile per entrare nell’università pubblica a Teheran. All’epoca era presidente dell’Iran Khatami che, durante i suoi mandati, ha fatto molto per l’arte. Quanto alle figure che considero significative, sicuramente è stato importante Bahman Jalali che era il mio professore all’università, e anche la fotografa Mehran Mohajer. All’epoca l’università di Teheran era focalizzata sui fotografi americani, soprattutto degli anni ’70 e ’80 e aveva anche una buona collezione di fotografia. Così anche io avevo una certa familiarità più con gli americani, tra cui Jeff Wall e Gregory Crewdson, che con gli europei». 
Gohar Dashti, Slow Decay #2 (2010) - Courtesy dell'artista e Officine dell'Immagine, Milano
Quale è oggi il ruolo della fotografia in Iran? In che modo si è evoluta la situazione in questi ultimi dieci anni?
«Penso che si debba partire più in là, con la rivoluzione islamica del 1979 e poi con la guerra Iran-Iraq che hanno fatto sì che si sviluppasse il filone della fotografia documentaria. Non poteva che essere questo, il ruolo della fotografia in un Paese in cui c’era stata una rivoluzione e una lunga guerra. Molti dei grandi fotografi iraniani, tra cui lo stesso Jalali, in quel periodo lavoravano con le agenzie straniere proprio come fotoreporter. Subito dopo la guerra la situazione economica era critica e c’erano altre priorità a cui pensare, ma durante la presidenza di Khatami il ruolo della fotografia è leggermente cambiato e si è sviluppata anche la fotografia artistica, come pure un certo interesse per l’arte contemporanea con l’istituzione di una Biennale d’Arte. All’università c’è stata una certa apertura verso l’estero con l’organizzazione di talk e lecture. Io stessa ho avuto modo di seguire un incontro al museo d’arte contemporanea di Teheran con Mitra Tabrizian, fotografa e filmmaker di origine iraniana che vive in Inghilterra. Era la prima volta che incontravo un’artista di cui conoscevo il lavoro. Non era un film! Con il tempo la fotografia documentaria ha avuto problemi nel mio Paese, nel descrivere questioni sociali e politiche, invece quella artistica continua lentamente il suo percorso. Questo genere sembra avere qualche chance in più». 
Gohar Dashti, Iran, Untitled #2 (2013) - Courtesy dell'artista e Officine dell'Immagine, Milano
Ho la sensazione, avendo avuto modo di intervistare alcune artiste iraniane – Parastou Forouhar, Shadi Ghadirian, Newsha Tavakolian – che siano proprio le donne in Iran ad affrontare con più ironia, ma anche con grande determinazione, i problemi sociali e politici. Giusto?
«Mi sento parte del discorso, quindi è un po’ difficile per me parlare di questo. E’ certamente così, ma non saprei dire il perché».
I tuoi personaggi generalmente sono silenziosi, tristi, circondati da un’atmosfera pesante. Anche quando ridono, come in Volcano (2012), non c’è allegria. 
«La serie Volcano è un po’ complicata. È partita dall’osservazione delle stampe Kodak per le pubblicità dove veniva congelata nel tempo l’immagine di gente che ride sempre, famiglie felici. Ma non è così nella realtà! Un’altra considerazione che ho fatto in questo lavoro è l’importanza del gruppo, l’insieme di persone, nella nostra società. Ho ritratto gruppi di famiglie, studenti, amici. L’idea stessa del gruppo racchiude in sé la potenzialità di un confronto, di un movimento di opinioni che vengono condivise e discusse. Anche dal punto di vista stilistico ho cercato di aderire ai canoni della fotografia pubblicitaria, non solo con la presenza di gente felice e sorridente, ma anche dal punto di vista tecnico usando luci e flash molto forti che appiattiscono l’immagine, annullando la profondità di campo. È tutto molto allegro, colorato e irreale. Ho voluto spiazzare l’osservatore con la differenza tra il linguaggio stilistico e il soggetto dell’immagine. Ho messo in discussione quella che è l’apparenza superficiale della vita di oggi in Iran, che spesso viene proposta come serena e allegra, ma questa è solo la visione più superficiale perché si tratta spesso di storie tristi strettamente connesse con la situazione politica e sociale. Quindi è un’allegria di cui non ci si può fidare. Infatti in tutte le foto compare una figura coperta, un elemento di disturbo che suggerisce che qualcosa non va». 
Gohar Dashti, Today's Life and War #5 (2008)
Nulla sembra affidato al caso nei tuoi progetti, in cui metti in scena un vissuto che è anche personale. Segui una determinata metodologia nel processo creativo? 
«Generalmente non lavoro da sola, ma in squadra. Ho due consulenti, due assistenti, dei tecnici per le luci. Parto da un’idea e ne parlo a lungo soprattutto con i miei assistenti Raoof e Hamed, che sono con me anche qui a Milano, quindi disegno quello che ho in mente e ci ragioniamo tutti insieme. Poi andiamo alla ricerca della location dove scattare le foto. Ad esempio nell’ultimo progetto Iran, Untitled siamo andati a fotografare nel deserto in una città vicino Mashhad, che dista quasi mille chilometri da Teheran. Uno dei problemi maggiori è stato quello di cercare i modelli, molti li abbiamo selezionati per email. In questo caso i personaggi sono ritratti uno vicino all’altro, a distanza ma altre volte, quando i ritratti sono più ravvicinati, per me è importante avere un feeling con il soggetto». 
C’è spazio anche per l’imprevisto?
«No. Tutto dipende da me. C’è un grande controllo sul progetto, diciamo che può capitare l’imprevisto, ma non più del 10 per cento. Può succedere, magari, che cambio di posto ad una persona all’interno di un gruppo, ma per il resto è come quando si gira un film, è tutto così complesso che non si può improvvisare».  

Inside Out - mostra di Gohar Dashti - Officine dell'Immagine - Milano (foto di Manuela De Leonardis)

La scelta del colore come unico linguaggio ha un significato per te?
«Il colore è più aderente alla realtà, questo è il motivo per cui lo preferisco. Anche se, ad esempio, in Today’s Life and War il colore è desaturato perché da una parte volevo che ci fosse il collegamento con la realtà, mentre dall’altra trattandosi dei miei ricordi non volevo essere nostalgica». 
All’estero le tue fotografie hanno partecipato a mostre importanti, dal Museum of Fine Arts di Boston (dove è in corso She who tells a story: women photographers from Iran and Arab world) al Mori Art Museum di Tokyo, National Taiwan Museum of Fine Art, Devi Art Foundation ed altre ancora. Invece, come è visto nel tuo Paese? È mai stato censurato?
«Di solito i miei progetti vengono esposti prima in Iran, in questo caso è la prima volta che lo espongo prima a Milano. Comunque non è mai stato censurato. Il mio lavoro, pur affrontando questioni sociali e politiche, non è direttamente coinvolto con le questioni del governo. Si tratta solo delle mie opinioni in cui metto a fuoco quello che per me è in generale la violenza, i ricordi della guerra, il sentimento di felicità in Iran. Certamente non sono io che posso risolvere i problemi. Non sono un’attivista, sono solo un’artista».

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