La ricca e complessa mostra di Hidetoshi Nagasawa al Macro, “Ombra verde”, è sicuramente un’operazione importante e imponente, che fa il punto dell’ultimo periodo della sua ricerca: ci sono quattro opere in sala ENEL, e altre due negli ambienti vicini.
Tra le opere di Nagasawa che conosco, queste forse sono le più occidentali. La mia prima impressione ha associato loro le immagini geometriche del De divina proporzione di Luca Pacioli. Ma viene alla mente addirittura l’incerta geometria di Escher, o certe formulazioni elementari dell’astrattismo italiano. La prima opera, da destra (rispetto all’ingresso della sala), rilancia la riflessione sul dialogo tra orizzontale e verticale, tra statico e cinetico. La successiva è una specie di architettura impossibile, poiché delle sottilissime stecche di metallo sono incaricate di mantenere un consistente blocco di marmo. La terza articola un fiato geometrico per l’aria, con una specie di elica spaziale che gira su se stessa. L’ultima designa uno spazio votivo dove, nel suo complesso orientamento spaziale, comunque si trova un luogo per una coppia di delicatissimi vasi: una richiesta di silenzio e concentrazione nello strepito dello spazio divelto dalle altre opere.
Le sculture poste negli altri spazi rilanciano l’idea di opera assoluta: un totem bianco dialoga e si eleva classicamente sopra due ciglia di marmo. L’altra sfida il vuoto, e sembra indicare la via di una torsione, ascetica più che drammatica. Una grande occasione quindi per ripensare alcuni tra i topos più importanti della cultura occidentale, studiati e vissuti da una grandissima sensibilità orientale. Hidetoshi Nagasawa ha il fascino orientale e quello dell’artista messi insieme. È di una semplicità disarmante, che affronta con serenità e determinazione infinita qualsiasi complessità dell’arte e della vita. Non si può che essere affascinati da un personaggio ieratico come lui, che preferisce il silenzio allo strepito, spesso senza senso e senza stile, della modernità. Nagasawa propone e interpreta una via della gentilezza che è assolutamente differente da qualsiasi partecipazione isterica occidentale.
Nella nostra breve intervista, quando ci siamo avvicinati a temi scomodi da trattare oralmente, ho trovato un sorriso e un atteggiamento che somigliava ai tre punti che in un racconto chiudono le frasi sospensive. Nagasawa sembra rimettere alla sensibilità dell’ascoltatore ciò che è difficile da definire, restando in una serenità che, alla fine, è il valore più importante che egli voglia trasmettere, riuscendoci benissimo. Le pretese dell’intervistatore di sapere di più sono cortesemente disattese, lasciandogli l’onere di approfondire da solo le varie questioni, poiché o c’è una comprensione empatica o non sarà attraverso una lezione che comprenderemo un qualsiasi messaggio. Così è in una specie di rassegnato mistero che si è svolta la nostra conversazione. Ma invece di essere scoraggiato, sono rimasto ancora più attratto, scoprendo che la via della gratitudine, la loro via, stava compiendo il suo corso…
Nella mostra di Roma ho visto un’opera in cui c’erano tre colonne tagliate a circa un metro, con sei, sette e otto facce…
«Il numero è importante nella mia arte. Cerco sempre dei processi compositivi che mi riportino ai numeri, al modo di lavorare della natura. L’otto poi è un numero importantissimo sia per la cultura araba, che lo rovescia e lo fa diventare il simbolo dell’infinito, sia per la cultura orientale. In entrambi i casi rappresenta il tutto. Queste sono variazioni sul sette».
In occidente abbiamo anche il concetto di serie. In arte abbiamo visto usare quella di Fibonacci.
«Anche la mia visione del mondo funziona in questo modo. Voglio avvicinarmi alla natura il più possibile».
Naturalmente anche una chiocciola è composta in questo modo.
«Certo, e occorre non distanziarsi. Pensa, per esempio, all’arte dei giardini. Ormai tutti fanno giardini, solo gli artisti, che dovrebbero veramente farli, non ne fanno più, ma è un errore».
A proposito di distanza, quanto sei distante dai grandi classici di Lao Tze, Chuang Tze?
«Per noi sono un po’ come la tragedia greca per l’Occidente. Veniamo da lì, ma ne abbiamo fatta di strada. Tra l’altro la cultura giapponese si è molto diversificata da tutto ciò. Inoltre la maggior parte degli anni della mia vita li ho trascorsi in Occidente, che è la mia casa».
Comunque il peso della tradizione Zen forse è molto più consistente del peso della cultura occidentale.
«Sì, senz’altro. Ma non è facile parlarne. Non è facile parlare di Zen».
Si potrebbe cominciare col concetto di Wu-Wei (in italiano non-fare).
«Sì. E’ molto importante per noi».
Anche il concetto di vuoto.
«Il vuoto non è come da voi. Non è un concetto negativo».
È una specie di pieno che ha deciso di fare il vuoto.
«Sì. Non è la mancanza di qualcosa, ma è qualcosa che ha scelto di manifestarsi per mezzo del vuoto».
François Jullien dice che il vuoto è il sapore senza sapore che permette a tutti gli altri sapori di esistere. Cosa ne pensi dell’approccio dell’occidente alla cultura orientale?
«È uno sforzo bellissimo, ma penso che ognuno ha la sua strada per trovare il modo in cui questo avvicinamento possa avvenire».
Per esempio John Cage.
«Lui è veramente importante. È singolare la sua figura, poiché era presidente dell’istituto americano di Micologia, una figura istituzionale. Ma era anche un grande musicista».
È stato allievo di Schoenberg, per cui conosceva benissimo anche la composizione.
«In Giappone per me è arrivato in un modo strano. Toru Takemitsu l’ha molto studiato. Si conoscevano, e attraverso Cage, Takemitsu ha studiato la micologia. Io sono stato molto vicino a questo ambiente, e anch’io mi interesso di micologia».
Insomma sempre la natura…
«Certo».
E per ciò che riguarda la cultura? Penso ai grandi testi di Granet, per esempio, a Mishima che in Confessioni di una maschera ha scritto delle pagine bellissime sulla cultura occidentale e sui S. Sebastiano della pittura europea…
«È un grande sforzo di avvicinamento. Anch’io sto lavorando molto su questo tema».